Scelta coraggiosa l’inaugurazione dell’81a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia con due titoli, due registi, che esplorano il tema della morte con stili narrativi diversi e personalissimi. A unirli, però, è quello sguardo dell’uomo sulla soglia di passaggio verso l’Aldilà. Parliamo anzitutto del film di apertura, “Beetlejuice Beetlejuice”, firmato dal geniale autore statunitense Tim Burton, noto per i suoi racconti dove l’umorismo si fonde con atmosfere gotiche, la fiaba è a un passo dall’horror. Burton riprende in mano i personaggi del suo popolare film del 1988, tracciando un racconto irriverente e sarcastico su vita, morte, famiglia e società. Nel cast tornano Michael Keaton, Winona Ryder e Catherine O’Hara, tra le new entry Jenna Ortega, Monica Bellucci e Willem Dafoe. È stato scelto, invece, per inaugurare la sezione Orizzonti “Nonostante” di e con Valerio Mastandrea, sguardo ironico e malinconico su chi è bloccato in una condizione di coma, tra il ritorno alla vita e l’Aldilà. Con suggestioni giocate tra “Ghost” e “La linea verticale”, Mastandrea governa un film denso di senso e sentimento, che strappa sorrisi e lacrime. Nel cast Dolores Fonzi, Lino Musella e Laura Morante. Infine, al Lido è il giorno della diva Sigourney Weaver, omaggiata con il Leone d’oro alla carriera. Il punto dalla Mostra.
“Beetlejuice Beetlejuice” (al Cinema, 05.09)
Alla Mostra del Cinema Tim Burton aveva già ricevuto un Leone d’oro alla carriera nel 2007. Ora l’autore statunitense fa ritorno in Laguna con l’onore di aprire ufficialmente l’edizione 81 del Festival con “Beetlejuice Beetlejuice”, sequel del suo “Beetlejuice” diretto nel 1988. A distanza di trentacinque anni Burton ha ripreso in mano il progetto, chiamando anzitutto a raccolta i protagonisti di allora: Michael Keaton, Winona Ryder e Catherine O’Hara. A convincerlo è stato il copione scritto da Alfred Gough e Miles Millar, già suoi collaboratori per la serie Netflix “Mercoledì” (2022). Tra i produttori figura, insieme al regista, Brad Pitt.
La storia. Sulla famiglia Deetz si abbatte una tragedia. Questo spinge le tre donne di casa, la videoartista Delia, la conduttrice Tv Lydia e la figlia adolescente Astrid a ritrovarsi insieme sotto lo stesso tetto a Winter River, nella loro casa un tempo infestata dai fantasmi, o meglio dallo spiritello irrequieto Beetlejuice. Una serie di inaspettate coincidenze e imprevisti spingono Lydia a confrontarsi con il passato, a dover chiedere “aiuto” a Beetlejuice…
“Questo nuovo film – ha dichiarato Burton – è molto personale per me, in parte perché ha lo stesso spirito del primo: molta improvvisazione, molti effetti speciali non digitali e semplicemente molta libertà di fare quello che volevo fare. Mi ha ricordato il vero motivo per cui mi piace fare film”. Quanto afferma l’autore è un tratto evidente del racconto, un chiaro divertissement sul binario stilistico-narrativo che ha sempre abitato, la favola nera con lampi di umorismo irriverente. In “Beetlejuice Beetlejuice” troviamo pertanto molte maschere e suggestioni tipicamente burtoniane, dove il concetto di “mostruoso” vira sempre verso l’umorismo esilarante; non mancano omaggi cinematografici, compreso quello al regista italiano Mario Bava. E se non ci sono “novità” sulla narrazione di Burton, è interessante allargare il campo dello sguardo e considerare il suo rapporto con la morte, come ha inserito il tema del film. I protagonisti, soprattutto Lydia (Winona Ryder) e Astrid (Jenna Ortega) si trovano a fare esperienza di un incontro faccia a faccia con la morte, recuperando così slancio nella vita, nella ricostruzione di un rapporto più stabile e sano madre-figlia. Burton, poi, sfidando il tema della morte, non si addentra troppo nel definire i contorni dell’Aldilà: si ferma un passo prima, quasi a rispettarne i tratti, la profondità. Nel complesso il film funziona nella logica dello sberleffo, dell’ironia a briglia sciolta, nell’impianto da film di evasione che corre su un genere, o meglio su una marca stilistica, ben preciso. Burton è Burton, si sa, da apprezzare soprattutto quel il suo sguardo visionario e provocatorio. Complesso, problematico-brillante.
“Nonostante”
Una bella sorpresa la seconda regia di Valerio Mastandrea, dopo l’esordio con “Ride” nel 2018. Parliamo di “Nonostante”, opera scritta a quattro mani con Enrico Audenino, chiamata a inaugurare la sezione sperimentale Orizzonti al Festival. Prodotto da Viola Prestieri, Valeria Golino e Malcom Pagani con Rai Cinema, il film conquista per la delicatezza con cui si accosta a un tema difficile e scivoloso come la condizione di chi è bloccato in coma, tra la vita e la morte. Mutuando qua e là varie suggestioni cinematografiche, dall’hollywoodiano “Ghost” del 1990 di Jerry Zucker alla miniserie Rai “La linea verticale” di Mattia Torre (interpretata dallo stesso Mastandrea), il film trova una sua precisa identità e linea di racconto.
La storia. In un ospedale si aggirano individui stanchi e annoiati, piegati da una ripetitività che non li abbandona. Tra una risata condivisa e un giro di ironia scacciapensieri, si fanno compagnia. Ben presto si scopre che sono tutte anime bloccate, ferme in quel luogo perché i loro corpi sono in coma, appesi a un filo. Tra la vita e la morte, in attesa che qualcosa accada. Tale incedere subisce uno scossone quando arriva una nuova paziente nella struttura, che porta una ventata di “ribellione” e di sentimento, che spinge a provare a rimanere aggrappati alla vita…
“Raccontare una storia d’amore – ha indicato il regista – come quelle che scoppiano improvvisamente a una festa di scuola, di pomeriggio, a casa di sconosciuti, dove ti innamori senza un motivo reale e ti accorgi che la vita da quel giorno non sarà più la stessa. (…) Per questo ci serviva uno spartito semplicissimo, molto classico (…) suonato però in un mondo quasi astratto dove la condizione dei nostri personaggi senza nome è metafora dei momenti dell’esistenza in cui stare fermi, immobili, rischia di diventare una forma di difesa dagli urti”.
Con alle spalle una solida carriera da attore, vincitore di 4 David di Donatello, Valerio Mastandrea torna dietro alla macchina da presa per disegnare una storia di sentimenti, paure e coraggio. Il tema di fondo, a tratti dominante, è la morte, la condizione che si fatica ad accettare nella nostra società caotica e vorticosa – fulminante la battuta che ricorre nel film: “La paura di andare via da soli” –; l’autore si sofferma soprattutto sulla sua “sala d’attesa”, la condizione di chi vive in un limbo, non cogliendo però lo strazio dei parenti. Servendosi di ironia acuta e brillante, Mastandrea ne descrive lo stato di incertezza. Quando però arriva l’amore a sparigliar le carte, tutto cambia. L’amore riafferma il desiderio di vita, il suo valore, acceso dall’esperienza del Noi. E questo irradia di fiducia e speranza tutto il racconto, al di là dei possibili sviluppi della trama.
“Nonostante” è un film coraggioso per l’argomento, accorto per il suo svolgimento con tonalità spesso contrastanti, giocate tra gioia e amarezza, ironia e malinconia. Un’opera che Mastandrea controlla bene come regista e che veste con disinvoltura come interprete. In parte, in maniera valida, anche i comprimari Dolores Fonzi, Lino Musella, Laura Morante e Giorgio Montanini. Consigliabile, problematico-poetico, per dibattiti.
A Sigourney Weaver il Leone d’oro
L’inaugurazione di Venezia81 è anche il giorno di Sigourney Weaver, attrice Hollywoodiana che si è fatta apprezzare per la sua lunga carriera tra cinema e teatro, cesellando sempre personaggi femminili forti, iconici e tenaci: dall’ufficiale Ripley di “Alien” (1979) alla ricercatrice Dian Fossey di “Gorilla nella nebbia” (1988), sino alla scienziata Grace Augustine in “Avatar” (2009). E proprio dei suoi personaggi ha dichiarato in conferenza stampa: “Mi domandano perché interpreto donne forti. In realtà io interpreto donne. Perché le donne sanno essere forti, capaci. Noi siamo tutto”. E rispondendo a domande sui progetti futuri, ha chiosato: “Perché mi dovrei fermare? È tutto così entusiasmante! Mi sento fortunata, perché amo il mio lavoro”.