Un trono di spade. Non intendiamo la serie dei record Hbo dalla penna di George R.R. Martin, ma la storia quella vera, della casa reale Windsor e di un Paese, l’Inghilterra, raccontato nel decennio ’80. È stata appena rilasciata a livello globale sulla piattaforma Netflix la quarta stagione della serie tv “The Crown”, racconto tra luci e ombre, pubblico e privato, della vita e del regno di Elisabetta II. Solido in cabina di comando c’è sempre il geniale Peter Morgan, ideatore e produttore, che firma ancora una volta una delle serie migliori in circolazione. A dominare sulla scena accanto alla sovrana, che per la seconda volta ha il volto del premio Oscar Olivia Colman, sono altre due donne di grande presenza e carattere: Margaret Thatcher (interpretata dalla veterana Gillian Anderson), “the Iron Lady”, prima donna al vertice di Downing Street, e Diana Spencer (una luminosa Emma Corrin), “la principessa del popolo”, entrata nei cuori della gente come Lady D. Buckingham Palace diventa dunque spazio di confronto (e scontro) tra donne, mentre l’universo maschile sembra sbiadire (ancora una volta) lì accanto.
Racconti di Palazzo, tra favola reale e bagno di realtà
Si snoda dalla fine degli anni ’70 all’inizio degli anni ’90 la quarta stagione di “The Crown”, anni che coincidono anzitutto con l’ascesa e il dominio governativo di Margaret Thatcher. Vediamo così l’ingresso della Lady di ferro al numero 10 di Downing Street, chiamata a muoversi in un mondo totalmente maschile e a prendere le misure con il protocollo reale cui fatica ad abituarsi. La Thatcher è donna schietta e pragmatica, poco incline ai cambi d’abito per il tea o alle battute di caccia con la famiglia reale. Lei ama lavorare sodo e picchiare duro: fa piazza pulita di ministri imbolsiti, tiene testa a sua maestà e non esita a varare misure impopolari per il Paese, che già incede in affanno per la disoccupazione. Lo scenario internazionale non rende poi le cose facili, anzi scricchiola, a cominciare dalle spinte indipendentiste in Australia, in Sudafrica o nelle isole Falkland.
Altro fronte chiave in “The Crown 4” è il matrimonio del principe Carlo. Sempre combattuto per l’amore verso Camilla Shand, ormai coniugata Parker Bowles, l’erede al trono di casa Windsor è pressato da tutti, regina e zio Mountbatten in testa. Carlo deve mettere la testa a posto e in sicurezza l’asse ereditario; sceglie allora la giovane Diana Spencer, sorella di Sarah, con cui aveva già una simpatia. Lady D risulta perfetta, così genuina e carismatica – la giovane supera con il massimo dei consensi il cosiddetto test della casa reale nel castello di Balmoral –, al punto che le nozze diventano un evento che manda in visibilio sudditi e media. Smorzati poi i toni della favola, il palazzo torna subito gelido, senza amore, condannando Lady D a una solitudine irreparabile, e a disturbi alimentari fuori controllo.
Il punto critico Cnvf-Sir
“The Crown” migliora visibilmente stagione dopo stagione. Man mano, infatti, che procede il racconto della corona sotto Elisabetta II, strutturato da Peter Morgan e Netflix in sei stagioni, la serie acquista sempre più incisività, fascino e magnetismo. Non era affatto facile mettere in sceneggiatura la storia della casa reale e nel contempo di un Paese senza inciampare in operazioni già viste (il cinema ne ha regalate non poche) oppure in pamphlet didascalici o soporiferi. Al contrario, qui l’impianto narrativo è gestito benissimo, con una qualità della scrittura a dir poco eccellente: i fili della storia del Paese si intrecciano abilmente con le vicende dei componenti di casa Windsor, ritratti tra i doveri che impone la corona e le spinte emozionali di ciascuno, tra aspettative, amori e frustrazioni. Peter Morgan tiene sotto controllo la macchina narrativa, assicurando un’adesione alla storia ufficiale, meticolosa, senza rinunciare però a una riscrittura funzionale di alcuni passaggi per garantire pathos e sì ritmo. Il risultato viaggia quindi spedito, fluido, su un binario narrativo che fa impallidire altre produzioni.
A dare poi ancor più ancoraggio e compattezza al tutto, tra realismo e suggestioni ammalianti, è la qualità della messa in scena. Una ricostruzione alla perfezione, dagli interni ai costumi, dalle acconciature alle scene pubbliche. I soldi che mette in campo Netflix non sono pochi (oltre 100 milioni di sterline), e questo si vede benissimo. E al di là poi della sempre affascinante colonna sonora firmata da Martin Phipps (la sigla però è quella di Hans Zimmer dalla prima stagione), funzionano molto bene gli inserti musicali rock e pop del tempo come ad esempio Elton John o The Cure – il più delle volte questi passaggi sono abbinati a Lady D, al sua giovinezza ruggente e voglia di libertà in un palazzo di ghiaccio – che cesellano la storia tra atmosfere vibranti e nostalgiche.
Capitolo fondamentale del fenomeno “The Crown” è infine il cast. Dalla terza stagione fanno parte del sistema solare “The Crown” Olivia Colman, Tobias Menzies, Helena Bonham Carter e Josh O’Connor; ultimi in ordine di apparizione le citate Gillian Anderson e Emma Corrin, che si uniscono a questo gruppo di attori così ben rodati e amalgamati. Insieme sono come elementi di una grande orchestra, tutti così meravigliosamente a tempo.
E il primo violino rimane lei, la Colman, che ancora una volta riesce a trasmettere in maniera sorprendente tutta la complessità del personaggio di Elisabetta II, cogliendo silenzi, sguardi, gesti della sovrana, rielaborandoli però con la sua recitazione personale: non c’è imitazione, non c’è maschera, ma semplicemente adesione al personaggio. La Colman ci consegna una regina solida, granitica, l’unica che sembra avere il polso della situazione, fuori e dentro al palazzo, capace di seguire le regole del protocollo con un rigore quasi disumano. La corona è la sua vita, è lei stessa, ben oltre la dimensione coniugale, il ruolo di madre oppure di sorella. Elisabetta governa tutti, familiari e cittadini britannici, senza apparente esitazione. Il suo problema forse è l’isolamento affettivo, emozionale, cui è condanna dal ruolo sin da ragazza: la corona viene prima di tutto, non esistono alibi o deroghe. Mai.
Se dunque il racconto in “The Crown 4” risulta assolutamente riuscito e trascinante, da applauso, non poca esitazione genera la riflessione dal punto di vista antropologico: la vita di questi reali, così come ci vengono proposti, appare “povera”, incastonata in un protocollo asettico e asfittico, tra obblighi di apparenza e solitudini brucianti. E sullo sfondo il Paese reale sempre più distante.
Articolo disponibile anche su Agenzia SIR
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