Oscar 2021: Tris d’autore per “Nomadland” che conquista film, regia e attrice protagonista. Una vittoria che fa Storia. Il punto sulla premiazione

lunedì 26 Aprile 2021
Un articolo di: Sergio Perugini

Al di là del dispiacere per i premi mancati all’Italia, in corsa con i film “La vita davanti a sé” (la canzone “Io sì” cantata da Laura Pausini) e il “Pinocchio” di Matteo Garrone (costumi e trucco), tanta è la gioia per la vittoria di “Nomadland” alla 93ª edizione degli Academy Award. Il film, partito dalla 77a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia con il Leone d’oro, si è imposto come da previsione, e giustamente, nella notte degli Oscar, artefice non solo di una notevole prova di cinema ma anche di una bella pagina sociale. Una vittoria che fa Storia, a cominciare dalle due “pioniere”: la regista Chloé Zhao e l’interprete-produttrice Frances McDormand. Nel complesso l’edizione 2021 degli Academy Award è stata un susseguirsi di conferme, con qualche significativa sorpresa (la bella vittoria di Anthony Hopkins!). Una cerimonia sobria ed elegante, forse un po’ troppo imbrigliata nel “politically correct”.

Con “Nomadland” gli ultimi in cima a Hollywood
Con il suo racconto dei cercatori di lavoro e di futuro, in una società americana sempre più minata da precarietà e povertà, “Nomadland” trafigge il cuore, grazie anche alla sua cifra-stile di denuncia in forma di poesia. Il film conquista con emozione per i suoi ritratti di gente scivolata ai margini, nelle periferie della vita, che però non si arrende alla disperazione ma si rialza con uno sguardo che sa di promessa di riscatto.
I tre Oscar di “Nomadland” marcano di fatto la Storia. Chloé Zhao è la prima asiatica a vincere come miglior regista, e soprattutto la seconda donna in assoluto a trionfare nella categoria dopo Kathryn Bigelow con “The Hurt Locker” nel 2010. Ancora, Frances McDormand è tra i pochissimi attori ad aver conquistato ben tre statuette come protagonista: la prima con “Fargo” nel 1997, la seconda con “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” nel 2018 e ora l’incoronazione definitiva con “Nomadland”. La McDormand si è messa, come suo solito, al servizio di una storia dal forte respiro sociale, denudandosi di orpelli e facendosi interprete di un cinema-verità. E che emozione vedere con lei, sul palco più importante di Hollywood, le altre “interpreti” del film, le vere nomadi provenienti dalla strada. Per una volta gli ultimi conquistano spazio e voce.

La pattuglia da Oscar capitanata da Sir Hopkins
Se dunque non c’è stata partita per i premi più pesanti, le restanti statuette sono state pressoché conferme senza sussulti, a eccezione della categoria miglior attore. Era data per favorita, anche dopo il Golden Globe, la vittoria di Chadwick Boseman, indimenticato interprete di “Black Panther” scomparso per una malattia nel 2020 appena quarantenne; Boseman era in corsa insieme a Viola Davis per il film “Ma Rainey’s Black Bottom”. Molti sospettavano che Hollywood lo onorasse con un Oscar postumo, invece si è imposto all’ultimo Anthony Hopkins, grazie alla performance nel dramma familiare “The Father” di Florian Zeller. A 83 anni Hopkins è tra gli interpreti più anziani a ottenere la mitica statuetta, conquistando il suo secondo titolo dopo quello vinto nel 1992 per “Il silenzio degli innocenti”. E non c’è che da applaudire, perché Sir Hopkins ha una statura attoriale di tutto rispetto, sempre misurato e intenso.
E se, guardando agli attori non protagonisti, era quasi scontata anche la vittoria di Daniel Kaluuya per “Judas and the Black Messiah”, film che mette a tema la questione dei diritti della comunità afroamericana (opera si aggiudica anche l’Oscar per il brano “Fight for You” della cantante H.E.R.), meno probabile era il successo della sudcoreana Yoon Yeo-Jeong, che ha brillato nel suggestivo “Minari”. L’attrice ha sbaragliato la otto volte nominata Glenn Close (quest’anno per “Elegia americana”), che si è comunque distinta durante la cerimonia per ironia e classe.

Gli altri premi in evidenza
L’Italia non aveva nessun titolo in lizza come miglior film internazionale agli Oscar; il nostro “Notturno” di Gianfranco Rosi non è rientrato infatti nella cinquina finale. A imporsi è stato il danese “Un altro giro” (“Druk”) di Thomas Vinterberg; l’autore ha convinto l’Academy molto più dello struggente “Quo vadis, Aida?” di Jasmila Žbanić, film sul massacro di Srebrenica che a Venezia77 ha ricevuto il Premio cattolico internazionale Signis. Per Vinterberg è pertanto un bel traguardo, che lo conferma come uno degli autori scandinavi ed europei tra più interessanti in circolazione. Il regista ha commosso la platea dedicando il film alla figlia recentemente scomparsa in un incidente stradale.
Il miglior cartoon è stato un premio “scontato”: ha vinto il film Disney-Pixar “Soul” di Pete Docter, al suo terzo Oscar dopo “Up” (2010) e “Inside Out” (2016). Il cartoon ha ottenuto anche il riconoscimento per la colonna sonora firmata da Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste, sbaragliando le musiche di “Minari” firmate da Emile Mosseri.
Le statuette per i copioni. In primis “Una donna promettente”, miglior sceneggiatura originale, firmata dalla britannica Emerald Fennell (la Camilla Parker-Bowles in “The Crown 4”), anche regista del film, tra le rivelazioni dell’anno che conquista per la denuncia contro la violenza sulle donne. E ancora, la sceneggiatura non originale va al dramma “The Father” scritto dal regista Florian Zeller insieme a Christopher Hampton.
Premi tecnici: il dieci volte nominato “Mank” di David Fincher porta a casa solo le statuette per fotografia e scenografia; montaggio e sonoro vanno al film “The Sound of Metal” diretto da Darius Marder; l’ingiustamente snobbato “Tenet” del geniale Christopher Nolan agguanta l’Oscar per gli effetti speciali. Da ultimo, miglior documentario è a sorpresa “Il mio amico in fondo al mare” (“My Octopus Teacher”) di Pippa Ehrlich e James Reed, che batte il pur notevole “Time” di Garrett Bradley sull’attivista afroamericana Sibil Fox Richardson.

Premi oltre gli steccati?
Nel 2020 gli Oscar si erano tenuti un passo prima del grande “rosso”, della quarantena globale. Quest’anno è stata la prima notte degli Oscar in tempo di pandemia, un’edizione che è apparsa a ben vedere come un vero e proprio trionfo in quanto si è potuta svolgere in presenza, segno e sogno di un ritorno a una “normalità” prossima. È una vittoria del cinema tutto, che in Italia coincide inoltre con la data di riapertura delle sale.
E se gli Oscar hanno dunque dato una bella iniezione di fiducia, non possiamo non constatare che la cerimonia senza consueto conduttore è stata un po’ fiacca, incalzata da meccaniche rotazioni di presentatori. Una premiazione di certo godibile e valida, ma molto “circospetta”: vigile nel dare la più equilibrata attenzione ai temi caldi tra società e agenda dei media, in primis a stelle e strisce, come la mai del tutto risolta questione dei diritti della comunità afroamericana.
In generale, l’Academy e Hollywood, nel voler ridurre al minimo le fratture sociali, nel voler dare equa rappresentanza a tutti, minoranze in testa, rischiano di avvitarsi in una celebrazione più di superficie che di sostanza. Tentare di imbrigliare lo sguardo del cinema, dell’arte tutta, attraverso quote e palizzate rischia di sgonfiare la magia del sogno, di mostrare il trucco impoverendone la poesia del racconto.

Articolo disponibile anche sul portale dell’Agenzia SIR

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