Famiglie allo specchio. Due sguardi sulla famiglia, due direzioni tematiche-narrative opposte. Da un lato il cartoon della Disney “Encanto”, brillante e colorato racconto sui ritmi dell’America Latina con brani firmati da Lin-Manuel Miranda. Dall’altro, la famiglia come nido di spine nell’elegante e ruvido western “Il potere del cane” (“The Power of the Dog”) diretto dalla regista neozelandese Jane Campion, Leone d’argento a Venezia78 e probabile candidato ai prossimi Oscar 2022. Il punto Cnvf-Sir.
“Encanto” (al cinema dal 24 novembre)
Si muove lungo il tracciato del realismo magico alla Gabriel García Márquez l’ultimo cartone animato di casa Disney “Encanto”, il 60° lungometraggio della Walt Disney Animation Studios, diretto da Byron Howard (Oscar per “Zootropolis”, 2016) insieme a Jared Bush e Charise Castro Smith, film che offre uno sguardo appassionato e coinvolgente sulla famiglia e le sue relazioni attraverso le sognanti atmosfere dell’America Latina: dopo “Coco” (2017), lungometraggio ambientato in Messico, ora la casa di Topolino omaggia la Colombia. “Abbiamo pensato – sottolinea il regista Howard – che sarebbe stato meraviglioso raccontare una storia che non parlasse soltanto di due personaggi, ma di una grande famiglia allargata. Volevamo celebrare le dinamiche complesse che caratterizzano le grandi famiglie e cercare di comprendere il loro funzionamento”.
La storia di “Encanto”: Colombia, Alma Madrigal e suo marito Pedro sono due giovani sposati con tre figli; costretti dalle minacce di rivoltosi, si incamminano nel cuore della notte verso le montagne alla ricerca di un riparo. Nel momento del bisogno più bruciante giunge un aiuto provvidenziale: una luce di speranza svela ai Madrigal un luogo di protezione, magico, una “casita” dai poteri straordinari. Decenni dopo ritroviamo Alma anziana a capo della grande famiglia, dove i suoi tre figli hanno formato a loro volta legami e sono nati dei nipoti. Tutti loro poi hanno ricevuto, abitando nella “casita”, un potere magico, tutti ad eccezione di Mirabel, nipote adolescente di Alma, il cui talento si rivelerà però salvifico per l’intera comunità: è lei la sola ad accorgersi che la “casita” perde poteri, protezione, con fratture amplificate dalle incomprensioni familiari…
In prossimità del Natale la Disney porta nelle sale un omaggio alla famiglia, un inno alla sua centralità, ad affetti e radici identitarie da custodire e tutelare. In “Encanto” assistiamo al viaggio avventuroso di Mirabel alla ricerca delle cause che minano la sicurezza della sua “casita” e in generale del futuro dei Madrigal. Più che un viaggio fisico, però, si tratterà di un percorso nei sentieri del cuore, teso a fare emergere incomprensioni, rimpianti o desideri sottotraccia.
“Encanto” si fa così metafora dei rapporti familiari odierni, spesso messi all’angolo dalla mancanza di ascolto e dialogo; un invito a rimettere al centro la parola, il confronto, a riparare ogni frattura. E se il tema è di stringente attualità, non poco denso, a rendere il tutto altamente fruibile e godibile sono i lampi di umorismo, scoppi di atmosfere colorate e canzoni dai ritmi vibranti composte da Lin-Manuel Miranda, sorprendente attore, compositore e regista di origini portoricane vincitore di numerosi riconoscimenti tra cui diversi Tony Award, Grammy e un Pulitzer per il musical “Hamilton” (2016). Per “Encanto” Miranda ha composto ben otto brani originali che puntellano con magica allegria la storia.
Nel complesso il cartoon “Encanto”, accompagnato nella versione italiana dalle voci di Luca Zingaretti, Diana Del Bufalo e Alvaro Soler, è un film che si lascia apprezzare per la scommessa sui temi e lo stile del racconto; a essere sinceri però non tutto torna nella narrazione, che soffre per alcune incertezze nella sceneggiatura, in alcuni passaggi prevedibili o di respiro corto. Musiche, canzoni e colori bilanciano comunque il tutto, facendo volare la storia. Dal punto di vista pastorale “Encanto” è consigliabile, poetico e adatto per dibattiti.
“Il potere del cane” (al cinema e dal 1° dicembre su Netflix)
Una famiglia assediata da silenzi e minacce. È questo il filo rosso del thriller esistenziale di matrice western “Il potere del cane” (“The Power of the Dog”) che segna il ritorno in grande stile della regista neozelandese Jane Campion, entrata nel cuore di pubblico e critica per “Lezioni di piano” (1993) e “Ritratto di signora” (1996), come pure di recente con la serie “Top of the Lake” (2017). Con “Il potere del cane” la Campion ha partecipato in concorso alla 78a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, opera con cui ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia e soprattutto ha lanciato il protagonista Benedict Cumberbatch nella corsa all’Oscar 2022.
Prendendo le mosse dal romanzo omonimo di Thomas Savage, il film ci conduce in America, nel Montana, nel 1925, dove vivono due fratelli allevatori di bestiame Phil (Benedict Cumberbatch) e George Burbank (Jesse Plemons). I due conducono una vita solitaria, fatta principalmente di lavoro. Quando George incontra Rose (Kirsten Dunst), una vedova con figlio adolescente (Pete, interpretato da Kodi Smit-McPhee), capisce di avere davanti a sé l’occasione per cambiare vita. Una volta sposati, si trasferiscono tutti nel ranch di famiglia con il fratello Phil, che però si dimostra sempre più scontroso, pungente, se non minaccioso…
La regista Jane Campion si confronta con il genere western attraverso una prospettiva abbastanza inedita: punta a demolire lo sguardo machista, mostrando le crepe di un mondo maschile segnato da insicurezze e desideri di felicità repressi. Nel sovvertire le regole narrative del western la Campion si serve di uno “strumento” d’eccellenza, l’intensa interpretazione di Benedict Cumberbatch, che tratteggia con grande accuratezza e stratificazione il personaggio di Phil, così spigoloso e problematico che nasconde sottotraccia una solitudine bruciante, i ricordi di un affetto mai dimenticato. Cumberbatch cesella sguardi, silenzi e gesti del suo personaggio, che imprimono forza e tensione alla storia tutta.
Per quanto sia bravo Cumberbatch, però, l’attore purtroppo non riesce da solo a portare a casa il film. “Il potere del cane”, infatti, seppure marcato da pulizia visiva e da una fotografia di grande fascino, sembra appesantito da una mancata compattezza e completezza. Non si discute certo il talento della Campion, ma la narrazione non sembra sempre sotto controllo, oscillando appunto tra il dramma esistenziale e il thriller psicologico. Inoltre, il finale viene orchestrato sì ad effetto ma anche frettolosamente, smorzando pathos e senso. Pertanto, al di là di ricorrenti momenti di valore, soprattutto in chiave estetico-visiva, raccordi dove esce fuori la bravura della Campion, il film non risulta pienamente riuscito. Dal punto di vista pastorale “The Power of the Dog” è complesso, problematico e per dibattiti.
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