Festa del Cinema17, al via con “Il Colibrì” della Archibugi. Su Netflix “Tutto chiede salvezza” di Bruni
giovedì 13 Ottobre 2022
Un articolo di:
Sergio Perugini
Al via la 17a Festa del Cinema di Roma (13-23 ottobre), la prima sotto la presidenza di Gian Luca Farinelli e la direzione artistica di Paola Malanga. Ad aprire le danze dell’appuntamento capitolino è un titolo italiano molto atteso, “Il Colibrì” scritto e diretto da Francesca Archibugi, dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, Premio Strega 2020. Un viaggio emozionale nel flusso di ricordi di un uomo, dagli anni ’70 ai nostri giorni, in un percorso segnato dalla presenza ingombrante della morte. Ottimo il cast tutto, a partire da Pierfrancesco Favino. Maiuscolo. E ancora, su Netflix dal 14 ottobre la serie dramedy “Tutto chiede salvezza” di Francesco Bruni, dal romanzo di Daniele Mencarelli. Coraggioso e potente racconto del disagio mentale; uno sguardo semiserio di matrice sociale che fotografa la condizione di giovani e adulti. Nel cast Federico Cesari, Fotinì Peluso, Andrea Pennacchi, Ricky Memphis e Raffaella Lebboroni. Punto Cnvf-Sir.
“Il Colibrì” (al cinema, dal 14.10)
È passato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, nella sezione Gala, e alla 17a Festa del Cinema di Roma veste l’onore-onere del film di apertura. Parliamo del dramma “Il Colibrì” diretto da Francesca Archibugi, che ne firma anche la sceneggiatura con Laura Paolucci e Francesco Piccolo, cercando di rispettare le ascisse e le ordinate dell’omonimo romanzo di Sandro Veronesi e al contempo di sconvolgerne un po’ i fattori. Un’opera intensa, problematica, dove la morte occupa un posto da comprimario. Un racconto dolente, che la regia della Archibugi governa con diffusa eleganza. La storia. Marco Carrera (Pierfrancesco Favino) è detto da tutti “il Colibrì”, per il suo sforzarsi nel rimanere sempre fedele a se stesso, fermo nel suo spazio. In un arco temporale dagli anni ’70 a oggi, tra Firenze, Roma e Parigi, si snoda tutta la sua esistenza. A fare da spartiacque nel tragitto del suo vivere sono diversi lutti, a cominciare dal suicidio della sorella Irene (Fotinì Peluso) poco più che ventenne. Accanto al presagio di morte che lo tallona, c’è comunque l’amore: quello giovanile per Luisa Lattes (Bérénice Bejo), per la moglie Marina (Kasia Smutniak) e infine per la figlia Adele (Benedetta Porcaroli).
Non è facile addentrarsi nelle pieghe di un’opera così stratificata come “Il Colibrì”. Per chi ha letto il romanzo di Veronesi, il tracciato è noto. Anzitutto è bene partire dalla regia della Archibugi. L’autrice romana, che ha esordito nel 1988 con “Mignon è partita”, con più di venti titoli all’attivo tra cinema e Tv, qui mette in campo uno sguardo maturo, solido, marcato da grande raffinatezza. Il suo modo di dirigere trova un passo fluido e avvolgente, un osservare la realtà e le sue fratture con una cifra dolente ed elegante insieme. Come racconta l’autrice, la sua sfida è stata “annullare la macchina da presa, riuscire a creare la percezione che la storia si stesse raccontando da sé”. “Non è un esercizio di regia facile – aggiunge – A volte la cosa più difficile da inquadrare è il viso di un uomo, di una donna, di ragazzi e bambini. Far capire i sottotesti. E filmare l’invisibile”.
In questo, la Archibugi è riuscita perfettamente nell’impresa, governando una narrazione che corre sul binario del flusso scomposto dei ricordi, pezzi di un puzzle esistenziale che trovano ordine in maniera episodica e casuale. Non c’è però confusione nel racconto, al contrario si assiste con crescente attenzione alle svolte nella vita di Marco Carrera. A ben vedere, però, a non girare altrettanto bene è l’impianto del racconto, che in alcuni raccordi scivola in uno stentato realismo (tra dialoghi e trucco), tanto da disperdere pathos e raffreddare il sentimento di compassione, del “soffrire con”.
“Il Colibrì” è un’opera puntellata dal dolore, da cui il personaggio non riesce mai del tutto a liberarsi; un dolore per il senso della precarietà della vita, per quelle perdite che generano cicatrici nell’anima; un uomo che ama, che si mette in gioco, ma che deve sempre fare i conti con un destino inclemente e beffardo, capace di travolgerlo. Nel racconto, poi, torna sistematicamente il tema del suicidio, dell’abbracciare la morte per scelta. Un argomento insidioso e scivoloso, che la Archibugi gestisce con prudenza e delicatezza, senza però disinnescarne la carica di problematicità. Il tema è, infatti, altamente divisivo, bruciante, difficile da accogliere a livello valoriale.
Nell’insieme “Il Colibrì” accompagna lo spettatore in una vertigine esistenziale tragica, dove però la carica emotiva non sempre regge il passo dell’azione. Gli interpreti corroborano la narrazione con performance misurate e ricche di sfumature, in primis Favino, sempre inappuntabile, e in alcuni passaggi superlativo, come pure i comprimari: Kasia Smutniak, Bérénice Bejo, Laura Morante, Nanni Moretti, Fotinì Peluso, Benedetta Porcaroli, Francesco Centorame. Un’opera corale che si distingue anche per la fotografia di Luca Bigazzi e per le scenografie di Alessandro Vannucci. Indicato per un pubblico adulto, il film “Il Colibrì” è complesso, problematico, adatto per dibattiti.
“Tutto chiede salvezza” (su Netflix, dal 14.10)
Francesco Bruni lascia ancora una volta il segno. Lo sceneggiatore romano classe 1961, che ha firmato molti copioni di Paolo Virzì come pure gli adattamenti Tv dei romanzi di Andrea Camilleri (tra cui “Il Commissario Montalbano”), regista poi al cinema di “Scialla!” (2011), “Tutto quello che vuoi” (2017) e “Cosa sarà” (2020), dirige e firma la sceneggiatura della serie Netflix “Tutto chiede salvezza” (prodotta con Picomedia). Prendendo le mosse dall’omonimo romanzo di taglio autobiografico di Daniele Mencarelli, la serie ci accompagna nei sentieri della fragilità umana, quella che assale senza distinguo di età giovani e adulti. Un’esperienza all’interno di un reparto psichiatrico, un percorso di 7 giorni, quelli del Trattamento sanitario obbligatorio. La storia. Roma oggi, Daniele Cenni (Federico Cesari) ha poco più che vent’anni e lavora come rappresentante. Dopo una serata fuori controllo in discoteca e l’assunzione di stupefacenti, rientra a casa barcollante e sfoga la sua rabbia sui genitori (Lorenza Indovina, Michele La Ginestra). Il giovane viene quindi ricoverato in una struttura psichiatrica per 7 sette giorni, per sottoporsi a un Tso. Un’opportunità per affrontare fragilità e “demoni” interiori, e provare a rimettersi in partita con la vita…
È una serie che fa centro “Tutto chiede salvezza”, sia per la qualità della proposta, la regia e la scrittura di Bruni, come pure per il tema che affronta. Il disagio giovanile, così come quello adulto, è molto diffuso nel nostro tessuto sociale, un malessere che spesso rischia di essere confuso banalmente con patologie psichiche. Bruni, muovendosi su un corpus letterario di per sé denso e ricco come quello di Mencarelli, costruisce un racconto corale dramedy – dramma con inserti da commedia – che si dipana a partire dall’esperienza del protagonista Daniele. I 7 giorni nella struttura assumono i contorni delle tappe di un viaggio esistenziale, introspettivo, che parte dallo scandagliare i traumi e i rimossi della propria vicenda personale, prendendo consapevolezza di sé tra limiti e guadagni, per tornare poi a rinascere. Un percorso non in solitario, ma arricchito dall’incontro con l’altro: Daniele esce dalla dimensione dell’Io tragico per ritrovarsi in un Noi solidale. Quando scopre di non essere solo, riesce a perdonarsi e a trovare la forza per aiutare se stesso e il prossimo.
Dai primi episodi visionati, dunque, “Tutto chiede salvezza” sembra comporsi come una serie potente, graffiante, che ha il coraggio di affrontare un tema spinoso e di stringente attualità, declinandolo in maniera acuta e lontana da scappatoie banali. Un racconto giovanile che sembra tangente al modello “SKAM Italia”, prendendo invece una piega decisamente più amara e asciutta. Non priva però di poesia e speranza. La serie “Tutto chiede salvezza” è complessa, problematica, adatta per dibattiti.