“The Fabelmans” di Spielberg: vibrante viaggio nella memoria familiare
venerdì 9 Dicembre 2022
Un articolo di:
Sergio Perugini
Steven Spielberg allo specchio. Con “The Fabelmans” – al cinema dal 22 dicembre – il gigante della Nuova Hollywood, quattro volte Premio Oscar, mette da parte il genio della spettacolarizzazione e quella cifra da racconto epico per abbandonarsi a uno sguardo intimo, a una storia quasi sussurrata, sui propri ricordi d’infanzia. Un viaggio tortuoso e avvolgente, nel quale l’autore mette a tema l’amore per il cinema e il suo rapporto con i genitori. Sullo sfondo gli Stati Uniti anni ’50-’60, segnati dall’entusiasmo per un mondo che corre veloce verso il progresso e la spensieratezza, dove però non mancano anche rigurgiti di antisemitismo. Se ci si accosta all’opera con l’idea di trovare emozioni forti, reboanti, “The Fabelmans” potrebbe apparire sulle prime “freddo”, in verità è “ghiaccio bollente”. Un film potente, che rimane addosso ben oltre la proiezione. Punto Cnvf-Sir.
Romanzo familiare americano
Scritto con il Premio Pulitzer Tony Kushner – che con Spielberg ha lavorato per i copioni di “Munich” (2005), “Lincoln” (2012) e “West Side Story” (2021) – “The Fabelmans” ci racconta il cammino formativo del giovane Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle). New Jersey anni ’50, Sammy è un bambino di sette anni che i genitori Burt (Paul Dano) e Mitzi (Michelle Williams) portano per la prima volta al cinema: suggestione e sconvolgimento davanti a “Il più grande spettacolo del mondo” (1952) di Cecil B. DeMille. È la scoperta dell’alba, del potere delle immagini. Dai genitori riceve poi in regalo la prima cinepresa, che usa per raccontare la vita in casa e fuori con gli amici. Tempo dopo la numerosa famiglia si sposta prima in Arizona e poi in California. Sammy si mette in gioco con piccoli film, imparando a cogliere anche i segnali di dolorose fratture tra i genitori. Se a casa la situazione si fa claustrofobica, le cose a scuola non vanno meglio: nel nuovo liceo a Los Angeles sperimenta sulla sua pelle forme bullismo, retaggi di un antisemitismo mai sopito…
Quell’arte che dà materia ai sogni e voce ai tormenti
“Ho cominciato a chiedermi quale fosse l’unica storia che non avevo ancora raccontato e che non mi sarei mai perdonato se non l’avessi fatto. La risposta era sempre quella: la storia del mio periodo formativo tra i 7 e i 18 anni”. Così Spielberg, con quasi sessant’anni di carriera e 35 lungometraggi alle spalle, confida al critico del “New York Times” A.O. Scott, indicando il tracciato di “The Fabelmans”: il film più (apertamente) personale, senza il ricorso al fantastico e alla metafora, come in “E.T.” (1982) o “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (1977).
Anzitutto l’autore mette in racconto il suo “fiat lux”, la scoperta del potere del cinema: il deragliamento di un treno nel buio di una sala, guardando l’opera di DeMille. Spielberg ci mostra come nasca da quel momento la sua urgenza di convogliare, attraverso le immagini, tutto il suo tessuto creativo ed emotivo. Quello che colpisce è il modo in cui mette in racconto per immagini il tormento per lo squilibrio famigliare, l’assistere all’allontanamento dei suoi genitori, due figure dolci, trascinanti, ma anche fragili e un poco infelici.
Un esempio. Quando Sammy non riesce a parlare con la madre, a comunicarle tutta la sua frustrazione, la prende per mano e la fa entrare in un armadio – che ricorda quello dove Gertie ed Elliot nascondono E.T. –, accende la cinepresa e svela così la vertigine del suo dolore, del suo disorientamento. La cinepresa, dunque, come forma di espressione, come urgenza comunicativa, che aiuta a supplire l’assenza di parole e al contempo a dare forma alle vorticose costellazioni creative interiori. A ben vedere, è la medesima suggestione condivisa da Paolo Sorrentino nel suo personale, bellissimo, “È stata la mano di Dio” (2021). Quel cinema che salva e apre all’idea di futuro.
Ancora, Spielberg mette in racconto abitudini, tradizioni identitarie e radici culturali ebraiche. Inserisce anche un tema sociale a lui caro, sempre marcato da urgenza: denunciare il rischio (costante) di deragliamento nell’intolleranza e nel buio dell’antisemitismo. Il regista richiama l’incontro-scontro con l’odio tra pari tra i corridoi del liceo, dove è spintonato e umiliato per le sue radici (il suo cognome è storpiato da “Fabelman” in “Bagelman”, rimando al tipico pane della cucina ebraica). Un pericolo che però il giovane Sammy argina e ribalta (anche in questo caso) proprio con il cinema, con la macchina da presa: si serve infatti dell’immagine per svelare la banalità del Male, per ritrarre, depotenziandoli, i suoi aggressori.
Michelle Williams e Paul Dano, genitori luminosi e fragili
Non è solo l’atto creativo a occupare la scena di “The Fabelmans”. Il film ci consegna soprattutto una dolcissima e dolente storia familiare, il rapporto tra Sammy e i genitori Burt e Mitzi, che gli attori Paul Dano e Michelle Williams rendono meravigliosamente. Se Dano gioca su note introspettive in sottrazione, lavorando per lo più su sfumature marcate da tenerezza, la Williams incanta con un’interpretazione elegante e struggente: è una giovane madre dedita alla famiglia, che coltiva l’amore per la musica, il sogno di una carriera come pianista; la sua Mitzi è una figura che coniuga l’alto e il basso, l’esuberanza più trascinante così come le note più brucianti dell’infelicità. È una madre che, seppure amando così tanto suo marito e i suoi figli, sogna l’evasione da un’esistenza che sente sostanzialmente ripetitiva e infelice. La Williams lavora su queste tonalità con un riuscito gioco di sguardi ed espressioni, facendosi portatrice dei passaggi più commoventi del film. Una performance sorprendente, che la lancia con decisione nella grande corsa all’Oscar 2023.
La partitura “sottotraccia” di John Williams
Infine, la musica. È un elemento da sempre centrale, caratterizzante dei film di Steven Spielberg, opere rese iconiche non solo dal genio creativo del regista ma anche dalla lunga e fruttuosa collaborazione con il maestro John Williams, compositore novantenne cinque volte Premio Oscar, di cui tre proprio per i film di Spielberg: “Lo squalo” (1975), “E.T.” (1982) e “Schindler’s List” (1993). John Williams – che nei prossimi giorni dirigerà un concerto alla Scala a Milano per il 40° di “E.T.” – ha creato per “The Fabelmans” una colonna sonora “atipica”, acuta e di senso: ha rinunciato alle sue entusiasmanti orchestrazioni, per accompagnare in punta di piedi in un racconto delicato e intimo. Le sue note non rubano mai la scena alla tensione narrativa, ai sentimenti dei protagonisti; al contrario, valorizzano il loro agitarsi sottopelle. Il grande compositore sembra quasi farsi da parte, per non oscurare la potente verità di un racconto personale e dolente. Una posizione laterale, almeno fino all’ultima sequenza, dove finalmente fa ingresso la sua inconfondibile cifra compositiva.
Perché vedere “The Fabelmans”?
È un film cui ci si accosta con curiosità, con l’idea probabilmente di essere travolti dall’entusiasmo creativo di un grande autore. In verità si assiste alla sua travagliata e coinvolgente storia familiare. Un’opera delicata, di diffusa eleganza e lontana da inciampi enfatici. Un racconto sussurrato, quasi tutto in sottrazione, che ammalia, convince e conquista. “The Fabelmans” è un vero regalo per questo Natale: è cinema, grande cinema, da vedere al cinema! Consigliabile, poetico, per dibattiti.