Bellocchio torna sul sequestro Moro con “Esterno notte”. Regia grintosa, coraggiosa, divisiva
venerdì 20 Maggio 2022
Un articolo di:
Sergio Perugini
A vent’anni dal suo film “Buongiorno, notte” (2003) e quasi a quarantacinque dal rapimento e uccisione dell’on. Aldo Moro, nella primavera del 1978, il regista Marco Bellocchio torna a raccontare quella vicenda, con un cambio di passo. Lo fa con un’opera inedita e una modalità per certi versi innovativa: la formula della miniserie, “Esterno notte”, prodotta da The Apartment – Fremantle con Rai Fiction e Arte France, in questi giorni al 75° Festival di Cannes e nei cinema con Lucky Red per un’uscita evento in due atti (la prima parte dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno), proprio come fu per “La meglio gioventù” (2003) di Marco Tullio Giordana. Bellocchio per la prima volta si confronta con il racconto Tv, ripercorrendo i giorni di prigionia del presidente della DC, esplorando nei 6 episodi tutti gli attori in campo di quella tragedia personale, familiare, politica e sociale. “Esterno notte” è una serie dura, durissima, incalzante, che si spinge sino ai confini della rabbia e della commozione. Il punto Cnvf-Sir.
Maledetta primavera
Nell’Italia infiammata dall’escalation terroristica, la primavera del 1978 rappresenta una stagione di drammatico cambiamento. In poco meno di due mesi, esattamente cinquantacinque giorni, un terremoto colpisce Parlamento e Paese tutto: il 16 marzo 1978, sulla strada che lo conduce alla Camera dei Deputati, l’auto su cui viaggia l’on. Aldo Moro, presidente della DC e tra i promotori dell’apertura del governo a sinistra, al partito comunista, viene assaltata da un commando armato. La sua scorta viene barbaramente uccisa. Tutti. L’on. Moro viene rapito e rinchiuso in uno spazio claustrofobico. A rivendicare l’agguato sono le Brigate rosse, che avviano un braccio di ferro con lo Stato mettendo il politico sul banco degli imputati. Dopo cinquantacinque giorni, nonostante le indagini di polizia e forze armate, l’attivismo continuo della Santa Sede, in primis di Paolo VI, Moro viene brutalmente giustiziato e il suo cadavere fatto trovare in centro a Roma, tra le sedi della DC e del PCI, il 9 maggio.
Di questo ci parla la miniserie “Esterno notte” diretta da Marco Bellocchio e scritta dal regista piacentino insieme a Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino. “Ho voluto stavolta – ha indicato l’autore – farne una serie per raccontare l’‘Esterno’ di quei 55 giorni italiani stando però fuori dalla prigione tranne che alla fine, all’epilogo tragico. ‘Esterno notte’ perché stavolta i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro: la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati”.
La politica vista con sguardo impietoso, la Chiesa con comprensione
Sui brigatisti Bellocchio non fa sconti. Dura e netta è la condanna. Vengono tratteggiati inizialmente per l’ebbrezza di un’idea rivoluzionaria che però si traduce in una vertigine folle e disperante, dagli esiti irreparabili. La carica di contestazione che li anima perde forza e vigore lungo la prigionia dell’on. Moro, facendoli così apparire non come figure rivoluzionarie bensì uomini soli, insicuri, il cui sonno della ragione vacilla… Bellocchio non fa sconti neanche alla politica, al partito della DC. Due i soggetti presi di mira: l’on. Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), allora presidente del Consiglio, e l’on. Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), ministro dell’Interno. Verso di loro, verso la DC, il regista si prende la libertà di accusarli a viso aperto, criticandone l’immobilismo, l’ipocrisia nel piangere pubblicamente il collega di partito, ma di non volerne la salvezza. Lo sguardo di Bellocchio è severo, fermo, bruciante. Una condanna senza appello.
Diverso, invece, è l’atteggiamento nei confronti della Chiesa. Il regista ci offre un ritratto di papa Montini, facendosi aiutare dalla finezza interpretativa di Toni Servillo. Il Papa è raccontato per la sua fragilità di salute – morirà subito dopo Moro, nell’estate del 1978 –, ma dall’animo sempre vigile e mai rassegnato. Papa Montini si dispera per l’amico Moro e fa di tutto, muovendo ogni canale a disposizione; mette persino in campo una ingente somma in denaro per pagarne il riscatto. La sua figura è tratteggiata come eterea, quasi pronta al sentiero di santità, sottoponendosi a continue flagellazioni per espiare colpe e peccati non suoi. Un’interpretazione che si muove lungo il binario del rispetto, rischiando a ben vedere qua e là pericolosi inciampi. Servillo però è puro talento, e non si lascia scappare di mano il personaggio.
Aldo Moro “alter Christus” e la tempra della moglie Eleonora
La vis poetica di Bellocchio emerge con intensità nel modo in cui presenta Aldo Moro, che Fabrizio Gifuni rende in maniera inappuntabile, con una mimesi espressiva e introspettiva di raggelante bravura. Moro brilla per la luce della sua ragione e per la forza granitica della sua fede, brilla anche negli anfratti più bui della prigionia. Appare come un povero Cristo, un “alter Christus”, che si incammina senza fare opposizione verso il Golgota, spintonato tanto dai brigatisti quanto dai compagni di partito. E questa sovrapposizione, tra Moro e Cristo, viene rimarcata volutamente da Bellocchio, che ce la offre con suggestioni oniriche striate di tragedia: vediamo infatti Moro piegato sotto il peso di una croce pesante, incede ma non cede, e abbraccia la sua morte con pia accettazione. “Quell’uomo – afferma Bellocchio – come Cristo, ‘doveva morire’. Perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma soprattutto nella mente degli italiani”.
La fede è un punto centrale nella storia, come pure il bisogno di eucaristia. Bellocchio ci mostra Moro come un cristiano granitico, un uomo di fede piena. Ha bisogno di andare in Chiesa, non per coscienza partitica, ma per adesione personale e morale. Un’esigenza di eucaristia, di vicinanza a Cristo, proprio quando sta per attraversare lui la soglia della fine, quando sta per espiare sulla Croce. Lì in quei difficili, interminabili, minuti, quando si trova davanti un sacerdote confessore, per un momento lo assalgono idee-emozioni inattese: paura della morte, rabbia per una condizione immeritata, persino odio, sì odio, per chi lo ha tradito tra i suoi pari in politica. Un moto dell’animo che dura però un attimo, arrivando subito a chiedere il perdono, prima di lasciarsi andare alla notte.
La fede che illumina Aldo Moro risplende anche in famiglia. Punto di osservazione è soprattutto la moglie Eleonora, che Margherita Buy scolpisce con fierezza e fragilità, regalando un ritratto spigoloso e struggente. Eleonora è una donna che fa quadrato intorno ai figli, li protegge, blinda la sua abitazione lasciando la politica fuori dalla porta, da cui si sente rabbonita e presa in giro. I suoi modi sono asciutti, spicci, ma sempre eleganti e rispettosi. Ripete di continuo “siamo cristiani”, un richiamo a un impegno civile, morale, che non deve venire mai meno. Neanche nella notte più buia.
La regia grintosa di Bellocchio
In ultimo, la regia di Marco Bellocchio. È la sua prima miniserie Tv, che affronta con la sicurezza del grande autore, mettendo in campo una freschezza narrativa, una solidità e una tensione di racconto ammirevoli. Bellocchio, passati gli ottant’anni, dimostra di avere ancora molto da dire. Ha una vis narrativa, poetica, rigogliosa, grintosa. “Esterno notte” conquista dunque per il modo in cui è girata, per le soluzioni visive messe in campo, che ricordano il grande cinema. Una narrazione esperta, matura, percorsa da inedita vitalità. I temi che affronta sono complessi, difficili, spesso divisivi per come li declina, ma di certo non può essere negata la sua capacità di racconto, il suo potente sguardo. “Esterno notte” è una miniserie complessa, problematica e adatta per dibattiti.