Il ritorno dei Roses. Negli anni ’80 Michael Douglas e Kathleen Turner sono stati una coppia (artistica) d’oro per Hollywood, mettendo a segno una serie di film riusciti nonché campioni di incasso: “All’inseguimento della pietra verde” (1984) diretto da Robert Zemeckis, “Il gioiello del Nilo” (1985) di Lewis Teague e “La guerra dei Roses” (1989) firmato da Danny DeVito. A distanza di oltre trent’anni Douglas e Turner, come pure lo stesso DeVito, si ritrovano insieme per la terza e purtroppo ultima stagione della serie comica “Il metodo Kominsky” (“The Kominsky Method”, 2018-2021), piccolo gioiello di casa Netflix. Cucita inizialmente addosso a Douglas (Golden Globe come miglior interprete nel 2019), in duetto con il collega Alan Arkin, la serie per il gran finale punta sull’effetto nostalgia ritrovando le due glorie della Nuova Hollywood segnate dal tempo, ma sempre pronte a mostrare il mestiere in scena.
Tra cuore e denaro. Sandy Kominsky (Douglas) è chiamato a nuove sfide, a cominciare dalla perdita dell’amico di sempre nonché suo agente Norman (Alan Arkin), che gli affida il compito di gestire la sua copiosa eredità tra amici e cari, in primis la figlia Phoebe (Lisa Edelstein) e il nipote Robby (Haley Joel Osment), entrambi affamati di quattrini. Per Sandy è anche il momento del matrimonio della figlia Mindy (Sarah Baker), come pure di riprendere il dialogo con l’ex moglie Ruth (Kathleen Turner).
Pros&Cons. Rispetto alle prime due stagioni, entrambe da 8 episodi, questa terza stagione del “Metodo Kominsky” ne prevede solamente 6, sempre della durata inferiore ai 30 minuti. Sulle prime si rischia di rimanere un po’ spiazzati e persino delusi, perché la consueta cifra comica frizzante sembra incedere in maniera ripetitiva, quasi stanca. Entrando però in partita con il racconto, dal secondo episodio in poi, la nuova stagione ritrova ritmo, quegli inconfondibili lampi esilaranti. È vero, si avverte la presenza si una trama un po’ stiracchiata come pure la mancanza dell’umorismo un po’ cinico e caustico tipico del personaggio di Norman, il grande Alan Arkin, ma il duetto Douglas-Turner promette bene, anzi è una valida compensazione. È proprio grazie a loro, infatti, che “Il Metodo Kominsky 3” trova senso, arricchendosi anche di atmosfere dolci e malinconiche. E sembra di assistere a una Master Class – in verità nella serie ce n’è una, ed è affidata al premi Oscar Morgan Freeman (meraviglioso!) – di due veterani di Hollywood che non hanno mai perso smalto o magnetismo; certo, non sono più giovani né ruggenti, ma i due attori possiedono comunque fascino, e non poco. Un viale del tramonto che oscilla tra scena e vita vera, che regala tenerezza, sorrisi e commozione. Seppure meno compatta e solida delle altre, questa terza stagione del “Metodo Kominsky” alla fine risulta riuscita e godibile. Applausi a scena aperta…
Articolo disponibile anche su Agenzia SIR