Sfide educative. Vasta è la filmografia dedicata al disagio giovanile e alla vertigine della droga. Tra i titoli più recenti “Beautiful Boy” (2018) di Felix Van Groeningen con Steve Carell e Timothée Chalamet e “Ben is Back” (2018) di Peter Hedges con Julia Roberts e Lucas Hedges: racconti dove un genitore abita la frontiera in fiamme per salvare il proprio figlio dal buco nero della dipendenza. Punto nodale è il recupero di un dialogo spezzato, disperso, con il proprio figlio. È questa anche la linea della miniserie “Vivere non è un gioco da ragazzi” su RaiPlay. Prodotta da Rai Fiction e Picomedia, la miniserie è diretta da Rolando Ravello e scritta da Fabio Bonifacci, dal suo romanzo “Il giro della verità” (2020). “Fuga, colpa, responsabilità, segreti – sottolinea Bonifacci – sono i termini-chiave di una storia di formazione che dai giovani si allarga agli adulti”. Cast di giovani tra cui Riccardo De Rinaldis Santorelli e Matilde Benedusi, affiancati da Stefano Fresi, Nicole Grimaudo, Lucia Mascino, Fausto Maria Sciarappa e Claudio Bisio.
Tutto per la più bella. Bologna oggi, Lele è un ragazzo di diciotto anni molto apprezzato a scuola e amato in casa, una famiglia unita che però vive non poche turbolenze economiche. Lele è da tempo innamorato di Serena, la più bella della classe, figlia della candidata sindaco della città. Per farsi notare da lei ed essere integrato nel gruppo di amici, Lele accetta di far uso di droghe, arrivando poi a commettere una sciocchezza dopo l’altra. Quando un coetaneo, Mirco, muore dopo l’assunzione di una pasticca, Lele viene assalito dal dubbio di esserne il responsabile…
Pros&Cons. Con alle spalle una lunga carriera come attore, Rolando Ravello da un decennio è passato dietro la macchina da presa: suoi sono “Tutti contro tutti” (2013), “Ti ricordi di me?” (2014), “Tutta colpa di Freud – La serie” (2021). In “Vivere non è un gioco da ragazzi” si muove su più livelli di racconto: da un lato segue le vicissitudini di un gruppo di liceali che per socializzare fa uso di droghe, senza pensare ai rischi; dall’altro lato, c’è il mondo adulto, dei genitori, che fatica tra il lavoro che non c’è, il conto in banca in rosso o una frenesia quotidiana che sottrae tempo al dialogo. E così si finisce per abitare uno spazio comune, la casa, quasi da estranei. La miniserie non vuole solo cogliere l’istantanea della società, un chiaro disagio familiare, desidera anche mettere in racconto un percorso di recupero: Lele attiva “un’epidemia di verità” che porta tutti, adulti e adolescenti, a fare i conti con le proprie colpe ma anche a provare a riparare alle azioni, ad avviare un percorso di salvezza. Evidente è il taglio educational della serie, che scandaglia ombre e luci del presente, tratteggiando un racconto efficace, accattivante e fresco nello stile, anche se in alcuni passaggi è fin troppo didascalico. Bene i giovani interpreti, ma ancora di più i veterani, su tutti Fresi e Bisio, quest’ultimo nei panni di un poliziotto “samaritano” in cerca di redenzione. Consigliabile, problematica, per dibattiti.