Film per il Giubileo della misericordia – Mia madre

giovedì 25 Febbraio 2016
Un articolo di: Redazione

OLTRE LA MORTE, UNO SGUARDO DI FIDUCIA

Visitare gli infermi: Mia madre (2015) di Nanni Moretti

 

 

Fede, ancoraggio nella malattia

«La malattia, soprattutto quella grave, mette sempre in crisi l’esistenza umana e porta con sé interrogativi che scavano in profondità. (…) In queste situazioni, la fede in Dio è (…) messa alla prova, ma nello stesso tempo rivela tutta la sua potenzialità positiva. (…) offre una chiave con cui possiamo scoprire il senso più profondo di ciò che stiamo vivendo; una chiave che ci aiuta a vedere come la malattia può essere la via per arrivare ad una più stretta vicinanza con Gesù, che cammina al nostro fianco, caricato della Croce». Nel Messaggio per la XXIV Giornata Mondiale del Malato 2016 papa Francesco ricorda la difficoltà e lo smarrimento che genera la malattia, ma anche l’opportunità di sperimentare la grazia della vicinanza di Cristo, presenza e sollievo lungo il calvario. 

Al cinema la malattia è stata protagonista in molte occasioni, ora in maniera drammatica ora declinata con rispettoso umorismo (Quasi amici, Il lato positivo, Colpa delle stelle). Per il ciclo Cinema e Giubileo, la Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI – Fondazione Ente dello Spettacolo, in accordo con l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, propone la visione del film Mia madre (2105) di Nanni Moretti per affrontare il tema della misericordia corporale “Visitare gli infermi”.

 

Mia madre, la morte non è l’ultima parola

Passato in concorso al 68. Festival di Cannes, dove ha ottenuto il Premio della Giuria Ecumenica, Mia madre (2015) di Nanni Moretti è stato riconosciuto dalla critica e dal pubblico come uno dei film più significativi della stagione, aggiudicandosi diversi riconoscimenti tra cui David di Donatello, Nastri d’argento e RdC Awards, i premi della Fondazione Ente dello Spettacolo e della «Rivista del Cinematografo».

Il film presenta la storia della regista Margherita (Margherita Buy), chiamata a confrontarsi con la crisi creativa, con le riprese dell’ultimo film, ma anche con la complessa gestione della malattia della madre (Giulia Lazzarini), ricoverata in ospedale. Margherita condivide il suo percorso con il fratello Giovanni (Nanni Moretti), che sceglie di rinunciare al lavoro per stare accanto alla madre. 

In Mia madre Moretti delinea due piani narrativi. Anzitutto, offre una suggestione sulla crisi del lavoro, sullo smarrimento sociale e anche sulla professione cinematografica. Margherita, che si potrebbe definire un alter ego del regista, è infatti in una situazione di stallo, fatica a trovare ancora un senso alla sua professione. È chiamata poi a gestire un set faticoso, in particolare la presenza di un divo hollywoodiano – l’attore statunitense John Turturro – preoccupato solo di dare ascolto alle proprie ambizioni. 

Margherita è stanca di tutto, sfiancata anche dai pensieri familiari. Ecco, dunque il secondo livello narrativo, la difficoltà di accettare la malattia della propria madre e l’urgenza di affrontare il momento della separazione definitiva, della morte. 

Segnato dalla recente scomparsa della madre, Nanni Moretti porta sullo schermo la propria inquietudine, declinando le sfumature del dolore dinanzi al distacco, ma anche offrendo un intenso sguardo di fiducia verso il domani. È proprio la parola “domani” che lascia una traccia forte nel film, che schiude a un orizzonte di speranza, nonostante l’ingombrante presenza della morte.

Mia madre è pertanto un film da riscoprire nel Giubileo straordinario della misericordia, per affrontare proprio il tema della misericordia corporale “Visitare gli infermi”. La protagonista Margherita, così come il fratello Giovanni, si sottraggono dinanzi al ritmo vorticoso della quotidianità, con i suoi continui affanni e seduzioni, per recuperare la pienezza di un rapporto con la propria madre, che si sta congedando dal mondo. Quello di Moretti è un sofferto ma necessario percorso di elaborazione della morte, cui non si piega con rassegnazione, ma ci consegna un ritrovato sguardo di fiducia e misericordia.

 

 

Per approfondire con la Cnvf e Cinematografo.it

 

Commissione Nazionale Valutazione Film CEI: «Al tramonto delle ideologie, l’unica vicenda possibile da raccontare è quella delle perdite provocate dalla crisi: il lavoro, la dignità, l’identità. Una denuncia di fronte all’unico caimano ormai possibile, un americano che pensa di poter arrivare, comprare e andare via. Una volta, nel periodo della provocazione a viso aperto, Moretti avrebbe potuto ricoprire tutti i ruoli: l’operaio, il capitalista, il produttore. Ora eccolo ripiegare sul ruolo del regista e insieme affidare ad un altro quello dell’autore del film nel film. Altro, anzi altra: Margherita, “collega” e sorella. (…) Dentro la Stanza del figlio (2001) si chiudeva un capitolo senza ritorno, un macigno piombato su qualunque alternativa. Il ricordo della mamma è ora invece affidato al ‘domani’, a ciò che parla di lei, la sua casa, quell’appartamento borghese così armonioso, pulito, con i libri in ordine, la scrivania generosa di testimonianze (anche il dativo è al suo posto), il latino come scrigno di tesori lontani ma preziosi. Tra Giovanni e Margherita sbiadiscono le differenze: lui e lei si sovrappongono, si ricompattano nell’immagine della mamma come anello di trasmissione tra generazioni, da lei alla nipotina. Dentro un gioco di incastri successivi, un succedersi di finali non detti, una scrittura linguistica di forte lucidità espressiva e di intenso pudore visivo (…), “Mia madre” diventa un inno al superamento delle perdite e al cinema, che ne è l’esempio probante: sempre finito e sempre morto, sempre capace di riemergere. Film intenso e stratificato, dopo il quale il silenzio non sarà più per Moretti una scusa plausibile. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti» (www.cnvf.it).

 

Rivista del Cinematografo – Cinematografo.it: «Come si lascia andare una persona, come si elabora il lutto per la perdita della madre? Come si torna al cinema dopo aver vaticinato l’imprevedibile, l’inaudito (Il caimano e, ancor più, Habemus Papam)? Come si può tenere il timone tra la necessità di aderire al reale (“Voglio ritornare alla realtà”) e quella di non indulgere nell’intimismo? Insomma, come si può mettere accanto al personaggio Moretti il regista Moretti, ovvero l’uomo Moretti? Come può quella denotazione affettiva, “mia madre”, che nemmeno sopporta fratellanza e sorellanza (non si dice “nostra madre”) travalicare l’individualità, l’individualismo e farsi connotazione universale, proprietà pubblica? (…) Forse, Mia madre è “La stanza della madre”, ma rispetto a La stanza del figlio è migliore, di gran lunga: Moretti è cambiato, maturato, il sadismo non gli interessa più, si è aperto al mondo, rivendicando la possibilità non ancora di farsi da parte, ma di farsi parte (Margherita) per tradurre la perdita individuale in guadagno pubblico, ovvero artistico. Lo fa rivendicando l’adesione alla realtà e insieme la concessione al sogno a occhi aperti, quello che facciamo quando la realtà è troppo brutta: non vogliamo chiudere gli occhi, ma vedere qualcosa di diverso quando i nostri cari se ne stanno andando. Perché le focali sono quelle corte della nostra inadeguatezza al mondo, alla vita e alla morte» (Federico Pontiggia, Mia Madre, in «Rivista del Cinematografo», n. 5, maggio 2015, p. 60).


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