Trifole. Le radici dimenticate

Valutazione
Consigliabile, poetico, Adatto per dibattiti
Tematica
Amore-Sentimenti, Animali, Anziani, Denaro, Famiglia, Famiglia - genitori figli, Malattia
Genere
Drammatico
Regia
Gabriele Fabbro
Durata
100'
Anno di uscita
2024
Nazionalità
Italia
Titolo Originale
Trifole. Le radici dimenticate
Distribuzione
Officine UBU
Soggetto e Sceneggiatura
Ydalie Turk, Gabriele Fabbro
Fotografia
Brandon Lattman
Musiche
Alberto Mandarini, Orchestra Sinfonica Bartolomeo Bruni
Montaggio
Gabriele Fabbro
Produzione
Massimo Fabbro, Marco Bianco, Luciana Cherubini, Sabrina Colantoni, Elena Miroglio, Sandra Lesina, Charley Vezza, Casey Diepeveen, Holding Thumbs Productions

Interpreti e ruoli

Umberto Orsini (Igor), Ydalie Turk (Dalya), Margherita Buy (Marta), Enzo Iachetti (Battitore d'asta)

Soggetto

Dalia è una giovane donna cresciuta a Londra, che, dopo essersi brillantemente laureata, è rimasta impantanata in una sorta di limbo privo di prospettive. La madre la manda così in un paesino delle langhe, ad occuparsi per qualche tempo del nonno, Igor, nella speranza che questo possa aiutarla a sbloccarsi. Dalia scopre lì che il nonno è affetto da demenza senile e che ha ricevuto una ratifica di sfratto. Per trovare una somma di denaro che gli consenta di conservare la casa, Igor decide di mandare la nipote e la cagnolina Birba a cercare un grande tartufo bianco, la vendita del quale risolverebbe i problemi economici.

Valutazione Pastorale

Ambientato nelle Langhe, tra le province di Cuneo e Asti, “Trifole. Le radici dimenticate” è diretto da Gabriele Fabbro, milanese classe 1996, al suo secondo lungometraggio dopo “The Grand Bolero” (2020). È una storia semplice, un ritorno alle proprie radici, alla scoperta di luoghi e affetti appannati dal tempo, sopiti, certamente non dimenticati. La storia. Dalia è una giovane donna cresciuta a Londra, che dopo essersi brillantemente laureata, si trova impantanata in una sorta di limbo privo di prospettive. La madre la manda così in un paesino delle langhe, a occuparsi per qualche tempo del nonno, Igor, nella speranza che questo possa aiutarla a sbloccarsi. Dalia scopre lì che il nonno è affetto da demenza senile e che ha ricevuto una ratifica di sfratto. Per trovare una somma di denaro che gli consenta di conservare la casa, Igor decide di condividere con la nipote la sua arte di trifolau e la manda, con la cagnolina Birba, a cercarne uno abbastanza grande da risolvere, con la sua vendita, ogni problema economico. “Trifole. Le radici dimenticate” è un racconto di crescita suggestivo e poetico, ambientato in una terra bellissima, cui regia e fotografia rendono doverosa giustizia. Con la giovane protagonista (un’eccellente Ydalie Turk) ci ritroviamo così immersi in un paesaggio da favola, tra foglie dalle infinite sfumature di rosso e giallo, cieli tersi e ordinati filari, fin quasi a sentirne i profumi e lo scorrere della terra tra le dita. Il film è chiaramente una metafora: Dalia deve estrarre dalla terra il tesoro che permetterà a Igor (magistralmente reso da un grande attore quale è, con i suoi 90 anni, Umberto Orsini), di conservare la sua casa, ma in realtà deve scavare dentro di sé alla ricerca delle proprie radici, il vero tesoro che le permetterà di trovare il suo posto nel mondo. Non senza affrontare difficoltà – la malattia del nonno e il suo carattere schivo in primis –, delusioni e una bruciante ingiustizia che, lungi dal piegarla, la spingeranno ad uscire fuori dal guscio nel quale si era rifugiata e che avrebbe finito per soffocarla. “Trifole. Le radici dimenticate” è un’opera originale per ambientazione e tematica, assai meno per la sceneggiatura, ma si riscatta nel finale: un tuffo nella realtà, alle aste dei tartufi, battuti per cifre inimmaginabili. E soprattutto per il messaggio che lascia: la famiglia, gli affetti, valgono più di case, terreni o tartufi, per quanto grandi e pregiati possano essere. Consigliabile, poetico, adatto per dibattiti.

Utilizzazione

Il film è da proporre in programmazione ordinaria e in altre occasioni di dibattito.

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