Nato a Cincinnati il 18 dicembre 1946, Steven Spielberg ha appena 27 anni quando, dopo alcuni corti di prova, dirige il suo film d’esordio “Duel” (1973). Seguono altri cinque titoli: “Sugarland Express” (1974), un road movie che incontra qualche critica in America e molti elogi in Europa; “Lo squalo” (“Jaws”) 1975, successo commerciale planetario; “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (“Close Encounters of the Third Kind”, 1977); “1941. Allarme a Hollywood” (1979) sull’America del dopo Pearl Harbour; “I predatori dell’arca perduta” (“Raiders of the Lost Ark”, 1981), primo titolo della fortunata saga avventurosa su Indiana Jones. Presentato come film di chiusura al Festival di Cannes 1982, “E.T. l’extra-terrestre” (“E.T. the Extra-Terrestrial”) esce negli Stati Uniti l’11 giugno dello stesso anno. Sono dunque passati quarant’anni dal debutto di un film che, col tempo, ha smesso di essere una semplice pellicola per ragazzi per trasformarsi in una fiaba universale a vocazione sociale, capace di mette in campo il valore dell’ascolto e del dialogo. La storia dell’incontro inaspettato e “magico” tra l’adolescente Elliott e il buffo, tenerissimo alieno E.T. – creatura nata dall’eccezionale inventiva di Carlo Rambaldi, vincitore del Premio Oscar per gli effetti speciali (in totale il film ne ha ottenuti quattro, comprese le musiche di John Williams) – rimasto bloccato sulla terra.
E.T. ed Elliot, quell’incontro che diventa amicizia
La sceneggiatura di Melissa Mathison, con cui Spielberg scrive il copione, parte dall’incontro improvviso, fortemente permeato dalla paura e dalla diffidenza reciproca, tra un terrestre e un alieno. E il nodo centrale del racconto è già tutto qui. Riguardiamo il momento. In una tranquilla zona residenziale di Los Angeles, il preadolescente Elliott (Henry Thomas), rovistando nel garage, vede materializzarsi davanti a sé una creatura decisamente insolita: l’alieno E.T. Ed è subito paura, ma anche curiosità e grande incertezza sul da farsi. Solo più tardi la madre Mary (Dee Wallace) si rende conto che qualcosa di imprevisto sta succedendo in casa. Il fatto è che la famiglia Taylor vive un difficile momento legato all’assenza del padre: a Gertie (Drew Barrymore), la figlia più piccola, è stato detto che il padre è in Messico per lavoro. Non si parla di divorzio, ma il vuoto lasciato dalla lontananza del genitore è rumoroso, al punto che qualcuno ha voluto vedere nella comparsa di E.T. un surrogato del padre. Passato il primo momento di sconcerto, il rapporto tra Elliott (e i fratelli) ed E.T. evolve verso una sempre maggiore comunicazione. Usando calma, pazienza, voglia di capire e di farsi capire, Elliott entra nel mondo di E.T. che, all’inizio muto, acquista lentamente la capacità di trasmettere suoni e articolazioni verbali. È il momento in cui tra il terrestre e l’alieno scatta la molla della comprensione, che porta verso una reciproca identificazione e una profonda empatia. È il segreto, forse il miracolo, della comunicazione, dell’incontro che diventa amicizia. Appena intravista, tuttavia, essa sembra dissolversi: E.T., catturato dagli agenti federali che vogliono condurre esperimenti scientifici su di lui, si ammala e il suo soffio vitale si affievolisce fin quasi a scomparire. Elliott si dispera, ma, scorgendo il rifiorire di una piccola pianta posta accanto all’amico, comprende che è vivo. Con l’aiuto dei fratelli riesce dunque a liberarlo e, tutti insieme, dopo una rocambolesca fuga (indimenticabile la sequenza delle biciclette che si alzano in volo al tramonto…) raggiungono l’astronave che attende E.T. per riportarlo a casa. Non sapremo mai quale sia il vero nome dell’extraterrestre, non è centrale nella storia; importa invece che un adolescente (e la sua famiglia) abbia avuto modo di connettersi con l’altro, di superare paure e diffidenze e gettare le basi per una conoscenza reciproca condivisa, facendo dell’incontro e dell’ascolto il terreno di contatto.
Una fiaba senza tempo sul valore dell’inclusione
Questo dovrebbe fare in ogni luogo e tempo la comunicazione: aiutare l’umanità a crescere nel rispetto e nella solidarietà. Ecco perché E.T., dopo 40 anni, non ha perso un fotogramma del suo fascino: Steven Spielberg mette nel film la forza propulsiva e affabulatoria della grande fiaba senza tempo, con lo sguardo rivolto verso il futuro. Soprattutto i bambini, sembra ricordarci il regista, con il loro istinto, la fantasia e il sentimento, possono accettare e accogliere l’altro, l’alieno, gli adulti sono troppo strutturati e guardinghi per poterlo fare: non possono (più) “volare” (con i dovuti rimandi a Peter Pan). Come ricorda del resto papa Francesco: “I bambini (…) – nella loro semplicità interiore – portano con sé la capacità di ricevere e dare tenerezza. Tenerezza è avere un cuore ‘di carne’ e non ‘di pietra’, come dice la Bibbia (cfr Ez 36,26). La tenerezza è anche poesia: è ‘sentire’ le cose e gli avvenimenti, non trattarli come meri oggetti, solo per usarli, perché servono… (…) Gesù invita i suoi discepoli a ‘diventare come i bambini’, perché ‘a chi è come loro appartiene il Regno di Dio’ (cfr Mt 18,3; Mc 10,14)” (Francesco, Udienza, 18 marzo 2015). Spielberg attraverso “E.T.” ci invita a non aver paura dell’altro, ad andare incontro a chi arriva come a un fratello. Le lacrime di Elliott, il bacio della piccola Gertie all’extra-terrestre sono momenti che non si dimenticano, che parlano di noi esseri umani, di uomini e donne, della bellezza dell’universo e del Creato. Con “E.T.” Spielberg ha cominciato a lasciare le sue indelebili impronte nella storia del cinema.