“Elvis” firmato Baz Luhrmann e su Disney+ anteprima di “Only Murders in the Building 2”
venerdì 24 Giugno 2022
Un articolo di:
Sergio Perugini
A Memphis, il 16 agosto 1977, quarantacinque anni fa, moriva Elvis Presley, “The King”. Nella sua carriera ultraventennale – il primo album è del 1956, l’ultimo inciso poco prima della morte – tra palco e cinema nell’America del sogno, tra i decenni ’50 e ’70, ha infiammato cuori di fan, lasciando un segno indelebile nella storia della musica e della cultura tutta. Il suo mito rivive oggi sullo schermo in un vorticoso, trascinante e a tratti psichedelico biopic firmato Baz Luhrmann. Protagonisti il trentenne Austin Butler e il Premio Oscar Tom Hanks, sempre superlativo. Ancora, in streaming su Disney+ dal 28 giugno la seconda stagione di “Only Murders in the Building”, spassosa serie crime sullo sfondo di Manhattan con Steve Martin, Martin Short e Selena Gomez. Abbiamo visto i primi episodi in anteprima.Punto Cnvf-Sir.
“Elvis” (dal 22 giugno al cinema)
“Heartbreak Hotel”, “Jailhouse Rock”, “Hound Dog”, “Love Me Tender”, “Can’t Help Falling in Love”, “Suspicious Minds”… La lista di brani celebri cantati da Elvis Presley è lunga, lunghissima. Muovendosi tra Rock and roll, Blues e Country, menzionandone i principali stili, Elvis è diventato un’icona musicale, culturale e mediatica del XX secolo, il cui mito si è andato amplificando anche dopo la morte, come del resto per Marilyn Monroe (ricorrenza importante anche per la diva di Hollywood, nel 2022 sono i 60 anni dalla morte, e con Netflix pronta a uscire in autunno con il biopic “Blonde”).
Vita, arte e fragilità di King Presley sono messe in racconto al cinema in “Elvis” dall’eclettico regista australiano Baz Luhrmann – ha diretto pochi film, ma tutti di chiara riconoscibilità “Romeo + Giulietta” (1996), “Moulin Rouge!” (2001), “Australia” (2008) e “Il grande Gatsby” (2013) –, che ha scelto come taglio narrativo il rapporto a corrente alternata tra il manager, padre-padrone, colonnello Tom Parker e l’artista del Mississippi, un sodalizio fortunato e insieme claustrofobico durato ben vent’anni (la carriera di Elvis si gioca in ventiquattro anni).
Quella tra il colonnello Parker ed Elvis è una storia che si muove tra luci e ombre: da un lato Parker ha avuto intuizioni geniali, scoprendo negli Stati Uniti degli anni ’50 il talento dell’artista appena maggiorenne, già dalla voce inconfondibile e dalle movenze rivoluzionarie (il soprannome “Elvis the pelvis”, per il movimento seducente di bacino), facendo di lui un’icona vivente e al tempo stesso un oggetto da merchandising anzitempo, in America e nel resto del mondo; dall’altro lato, Parker controllava tutto del divo, dai brani musicali ai luoghi delle performance, compreso chi dovesse frequentare (influendo anche nella storia con la moglie Priscilla) oppure la gestione del patrimonio personale.
Che dire di questo “Elvis” targato Luhrmann? Il film è una fragorosa esplosione rock, colorata e caotica, condizionato soprattutto dall’entusiasmo debordante del regista, che muove la macchina da presa in maniera vorticosa, componendo un can-can seducente e destabilizzante nello stile “Moulin Rouge!”. Fin troppo. Tutto appare chiaro già dagli sbrilluccicanti titoli di testa. E in tale delirio narrativo-visivo che ci guida alla scoperta del mito, riletto a partire dalla prospettiva del colonnello Parker, il film trova senso solo quando l’Elvis è sul palco, di fronte al microfono, dando vita alle sue indimenticabili performance: quando Elvis canta, si muove con elegante agitazione, magnetico, tutto si ferma… Lì è il cuore del film, tutta la sua forza narrativa, dolente e poetica. Lì risiede la forza espressiva di Elvis, il ruggito sul palco e tutte le rumorose insicurezze interiori, le fragilità legate ai due amati (e problematici) genitori, alla dipendenza dal manager aguzzino e all’incapacità di affrancarsi dall’immagine ingabbiante di sé.
Tom Hanks si conferma un talento raro, capace di sagomare sempre con grande finezza e credibilità i ruoli che gli vengono di volta in volta affidati, sia esemplari che miseri come quello del colonnello Parker. Austin Butler sorprende per la straordinaria aderenza a Elvis Presley, la sua mimesi fisica e vocale è davvero spiazzante. È il ruolo della vita per un artista (con la speranza di non rimanervi scottati o appiccicati…).
Punto di originalità e al contempo di debolezza del film è la regia di Baz Luhrmann: l’autore appare schiavo del suo inconfondibile stile eccessivo, pop e poetico, al punto quasi da non sapersene liberare. Qui maneggia il mito di Elvis, di per sé già stratificato e ingombrante, pertanto sovraccaricare meno il racconto avrebbe di certo giovato. Nel complesso, “Elvis” è un biopic che infiamma e confonde, che regala comunque il sogno, la possibilità di rivedere e riascoltare ancora una volta “The King”… Lunga vita al re del Rock and roll! Consigliabile, problematico e per dibattiti.
“Only Murders in the Building 2” (dal 28 giugno su Disney+)
Sono tornati, sono tornati, finalmente! Parliamo di Steve Martin, Martin Short e Selena Gomez, protagonisti della serie Tv “Only Murders in the Building”. Dopo il folgorante esordio nell’estate-autunno 2021 sulla piattaforma Disney+, la serie è stata subito rinnovata per una seconda stagione. Come definirla? Un giallo, crime, marcato da brillante umorismo, che ricorda tanto lo sfondo della commedia hollywoodiana anni ’80-’90 ma soprattutto il cinema acuto e frizzante di Woody Allen. Creatori di “Only Murders in the Building” sono lo stesso Steve Martin insieme a John Hoffman; tra i produttori, poi, oltre ai tre attori capocomici, troviamo anche il papà di “This is Us”, Dan Fogelman. Dal 28 giugno 2022 su Disney+ verranno rilasciati i 10 nuovi episodi (da 30 minuti), due a settimana. Noi ne abbiamo visiti alcuni in anteprima. La storia: L’Arconia è un elegante e imponente condominio nell’Upper West Side di Manhattan, a New York. Lì si è registrata la morte dell’enigmatico Tim Kono (Julian Cihi) e l’arresto della concertista Jan (Amy Ryan), a seguito delle tragicomiche indagini dei condomini Charles (Steve Martin), Oliver (Martin Short) e Mabel (Selena Gomez), raccontate anche in un gustoso podcast. Nel finale della prima stagione l’inaspettato assassinio dell’amministratrice del palazzo, la spigolosa Bunny (Jayne Houdyshell), ha rimescolato le carte, addossando i sospetti sui nostri tre protagonisti. Il tutto ora riparte da lì, dalla morte di Bunny, dall’accusa al trio di “investigatori” e dalla loro voglia di rimettersi in gioco, di capire chi sia il vero colpevole. Nel mentre nuovi inquilini fanno ingresso: l’attrice comica Amy Schumer (che si prende in giro nei panni di se stessa), subentrata nell’appartamento del cantante Sting, e un’anziana ereditiera (Shirley MacLaine), madre della defunta Bunny.
“Only Murders in the Building” è una serie che unisce la pista del crime, del poliziesco, a lampi di umorismo brillante a biglia sciolta. La forza narrativa risiede soprattutto nel duo Steve Martin e Martin Short, due vere icone del sorriso nella Hollywood anni ’80-’90 (di Martin sono da richiamare “Roxanne”, “Il padre della sposa”, “Moglie a sorpresa”, mentre di Short “Salto nel buio”, “In fuga per tre” e sempre “Il padre della sposa”). I loro tempi comici sono perfetti, scoppiettanti, del tutto naturali e dinamici: un vero godimento per lo spettatore, di ieri e di oggi. Bene poi la presenza della cantante-attrice Selena Gomez, stellina cresciuta in casa Disney e ora dal granitico seguito social: sa stare al passo con i due veterani della commedia con rispetto e brio, riuscendo a portare anche un suo contributo originale.
La seconda stagione di “Only Murders in the Building” parte bene, con passo deciso, in linea con la prima, confermando quel mix vincente di personaggi irresistibili, comicità acuta, pista gialla ben congegnata, il tutto esaltato da una ricercata e stilosa messa in scena: scenografie e costumi sono indovinati, su tutti la casa e l’abbigliamento di Charles “Brazzos” Savage/Steve Martin. Una meraviglia! Serie consigliabile, problematica, indicata per adulti e adolescenti accompagnati.