In sala “Lightyear” e “Alla vita”, su Sky-Now la serie “Un amore senza tempo”
venerdì 17 Giugno 2022
Un articolo di:
Sergio Perugini
“Verso l’infinito e oltre!”. È una delle celebri espressioni della saga animata “Toy Story” (1995-2019) della Pixar – il suo primo lungometraggio! –, il motto del pupazzo Buzz Lightyear, lo Space Ranger, che sconvolge e arricchisce la tranquilla esistenza dello sceriffo Woody nel mondo animato dei giocattoli. Dal 15 giugno in sala c’è lo spin-off “Lightyear. La vera storia di Buzz” di Angus MacLane, che racconta la vita dell’astronauta Buzz e i motivi per cui è diventato una leggenda. Sempre al cinema il dramma esistenziale “Alla vita” di Stephane Freiss con Riccardo Scamarcio e Lou de Laâge, una sorta di “Unorthodox” (Netflix) in salsa franco-pugliese. Infine, su Sky e Now i primi episodi della miniserie “Un amore senza tempo. The Time Traveler’s Wife” targata Hbo con Theo James e Rose Leslie. Punto Cnvf-Sir.
“Lightyear. La vera storia di Buzz” (dal 15 giugno)
La saga “Toy Story”, con i suoi quattro film, non è solo un fenomeno culturale e cinematografico, con copiosi incassi e diffuso merchandising, capace di raggiungere Millennials o Generazione Z, famiglie comprese. C’è anche un elemento sentimentale che si lega a tali film, soprattutto in Italia: le voci dei personaggi di Buzz e Woody, rispettivamente quelle di Massimo Dapporto e del compianto Fabrizio Frizzi, insieme in un duetto brillante, poetico, indimenticabile.
Ora, come sempre più di frequente nell’universo Disney, esaurita la spinta narrativa della saga primaria, ne è nato uno spin-off dedicato: “Lightyear. La vera storia di Buzz” che racconta le origini del coraggioso Space Ranger cui è stato associata una linea di giocattoli. A dirigere il film è Angus MacLane, animatore di alcuni noti titoli Disney-Pixar come “Toy Story”, “Monsters & Co.” e “Up”, nonché regista di “Alla ricerca di Dory” (2016). MacLane concepisce il progetto “Lightyear” come una sorta di biopic avventuroso e fantascientifico richiamando modelli iconici quali Flash Gordon e Captain America, così come precisi sfondi cinematografici anni ’80 quali “Star Wars” e “I predatori dell’arca perduta”. La storia. A 4,2 milioni di anni luce dalla Terra la navicella spaziale guidata dal comandante Alisha Howthorne e dal sodale Space Ranger Buzz Lightyear fa rotta sul pianeta T’Kani Primo in cerca di nuove risorse; lo scenario è però respingente, una terra contaminata da rampicanti predatori. Nel tentativo di fuga, sotto la guida di Buzz, la navicella perde il cristallo-cella combustibile, così la comunità scientifica rimane ostaggio del pianeta. Per molto tempo (anni!) Buzz si dedica ai test di una nuova cella che gli permetta finalmente di riportare tutti a casa. Fallimento dopo fallimento, il Ranger si sente un eroe depotenziato, incapace di riparare ai propri errori…
Un cartoon di certo stratificato “Lightyear. La vera storia di Buzz”: c’è tanto, persino troppo. Al di là della riuscita e avvincente pista narrativa avventurosa, la missione spaziale narrata con incalzanti sfide alla Indiana Jones, punto nodale del racconto si conferma la dimensione esistenziale, lo sguardo antropologico. Buzz è un eroe che si scopre imperfetto, fallibile, profondamente umano. Per audacia e sicurezza di sé, ha messo in pericolo la missione e la vita dei propri compagni; da acclamato Space Ranger arriva a sentirsi solo, incerto e irrisolto.
L’incontro-scontro però con gli ultimi della filiera, le reclute che nessuno vuole addestrare – un team composto da giovani acerbi e veterani problematici –, aiuterà Buzz a leggersi dentro e a comprendere come l’errore sia una dimensione profondamente umana. Un errore-vertigine fagocitante da cui però è possibile sottrarsi chiedendo aiuto, e lasciandosi aiutare, scommettendo sul senso del lavoro di squadra. È proprio per questo che il cartoon funziona, per tale potente linea tematica che educa all’incontro e alla solidarietà, che apre all’altro, al valore del Noi.
Nell’insieme, “Lightyear” è un film colorato, vorticoso, avvincente, persino sovraccarico, ma di indubbio divertimento; a impreziosirlo le voci di Alberto Malanchino, Ludovico Tersigni, Esther Elisha e astro Linda (Raimondo), compresa un’incursione di Massimo Dapporto. Consigliabile, semplice e adatto per dibattiti.
“Alla vita” (dal 16 giugno)
L’attore francese Stephane Freiss dirige “Alla Vita” (“Tu choisiras la vie”), opera che si muove tra dramma familiare ed esistenziale, giocato sulla ricerca di sé e il rapporto con la fede. Un racconto che sembra recuperare le suggestioni della struggente miniserie Netflix “Unorthodox” (2020) con Shira Haas, ispirata alla vita di Deborah Feldman nella comunità ultra-ortodossa chassidica di Brooklyn. La storia. Puglia oggi, gli Zelnik sono una famiglia ebrea ultra-ortodossa francese che ogni anno trascorre del tempo nel Sud d’Italia per la raccolta del cedro nella tenuta di Elio De Angelis (Riccardo Scamarcio), un tempo gallerista e ora agricoltore sulle orme del padre. Esther Zelnik (Lou de Laâge) è una giovane donna ventiseienne che sente su di sé il peso delle aspettative familiari (che la vogliono sposata quanto prima) e di un’adesione-pratica religiosa diventata difficile da gestire, a tratti claustrofobica. Esther vorrebbe mettere da parte gli abiti austeri, il nero e il bianco, imparando a muoversi nel mondo come una ragazza della sua età, abbracciando i colori della vita. Dialogare con Elio la aiuta a mettere a fuoco i suoi tormenti; al contempo l’uomo riesce a rileggere la propria storia e le scelte compiute, imparando a perdonarsi…
Muovendosi su un canovaccio narrativo di certo interessante, anche se non del tutto originale, il film “Alla vita” mostra indubbio fascino per la messa in scena, soprattutto per il modo in cui alterna il racconto della campagna pugliese con i paesaggi interiori dei due protagonisti Esther ed Elio: si passa così dalla luminosità dei campi coltivati ai lividi spazi interiori, puntellati da sofferenze e rimpianti. Quel dialogo sussurrato tra i due, quasi di nascosto dai Zelnik, detona ogni conflitto con un effetto balsamico e sembra aprire l’animo di entrambi a un nuovo inizio.
Se convince la messa in scena e la fotografia, che esaltano la dimensione paesaggistica e introspettiva, sembra funzionare meno la sceneggiatura o la stessa regia, non sempre solide e compatte. Il film cerca le sponde della poesia, ma non sempre la trova. Nell’insieme “Alla vita” è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.
“Un amore senza tempo” (dal 13 giugno)
Su Sky e Now sono state appena rilasciate le prime puntate della miniserie Hbo “Un amore senza tempo. The Time Traveler’s Wife” (sei episodi in tutto), nuovo adattamento del romanzo di Audrey Niffenegger, che aveva già trovato popolarità con il film “Un amore all’improvviso” (2009). A curare ora la versione Tv è stato chiamato il britannico Steven Moffat, che ha firmato la geniale attualizzazione di Sherlock Holmes nella miniserie Bbc “Sherlock” (2010-17) come pure il rilancio della serie “Doctor Who” (2010-15). Ancora, a dare ulteriore appeal a “Un amore senza tempo” sono due divi inglesi in ascesa: Theo James, la star della saga fantasy-distopica “Divergent”, e Rose Leslie, nota per “Il Trono di Spade” e il crime “Vigil”. La storia. Stati Uniti, Claire e Henry sono due trentenni sposati, legati da un sentimento sin dall’infanzia; a complicare però le cose è un disturbo genetico dell’uomo: è soggetto a salti temporali, spinto continuamente a rivivere episodi della sua infanzia, adolescenza, vita adulta e persino del futuro. Il tutto in maniera incontrollata.
Se la storia è pressoché nota, Moffat punta a innovare le dinamiche del racconto valorizzandone soprattutto l’intreccio; imprime poi ai dialoghi un ritmo più serrato, di presa attuale, puntellandoli con sfumature di sentimento e lampi ironici (in alcuni casi un po’ fuori controllo). Alla regia c’è David Nutter (“Trono di Spade”). La miniserie parte dunque bene, spedita e accattivante, con una buona tensione narrativa, nonostante qualche sbavatura. Attendiamo l’evoluzione.