In sala “Perfect Days” firmato Wenders e “The Miracle Club”, su Prime Video “Saltburn”
venerdì 5 Gennaio 2024
Un articolo di:
Sergio Perugini
Wim Wenders, il grande regista tedesco, tra i principali autori del cinema europeo, è tornato dietro alla macchina da presa per una storia “minuta” e bellissima. Parliamo di “Perfect Days”, una poesia urbana ed esistenziale dove protagonista è la quotidianità di un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, che l’attore Koji Yakusho valorizza magnificamente. In sala c’è anche il gioiello inglese-irlandese “The Miracle Club” di Thaddeus O’Sullivan con le attrici Premio Oscar Maggie Smith e Kathy Bates. Una commedia con striature drammatiche che racconta il viaggio al santuario di Lourdes di quattro donne in cerca del miracolo della guarigione; un film che a ben vedere non interroga la dimensione della fede o del Mistero, ma approfondisce l’importanza del perdono. Su Prime Video il dramma feroce “Saltburn” dell’inglese Emerald Fennell, alla sua seconda regia dopo il folgorante “Promising Young Woman” (2020). Un affresco della società inglese Upper Class tagliente e fosco, che fa discutere ma colpisce per le scelte di regia e l’ottimo cast tra cui Barry Keoghan e Jacob Elordi. Il punto Cnvf-Sir.
“Perfect Days” (Cinema, 04.01)
Wim Wenders conferma ancora una volta la sua statura artistica firmando un film suggestivo e splendido: “Perfect Days”, in Concorso al 76° Festival di Cannes (2023). L’autore tedesco, classe 1945, con più di cinquant’anni di carriera e un elenco corposo di riconoscimenti – Leone d’oro a Venezia per “Lo stato delle cose” (1982), Palma d’oro a Cannes con “Paris, Texas” (1984) e Orso d’oro alla carriera a Berlino nel 2015 –, con “Perfect Days” mette a segno un altro titolo di grande fascino, destinato a rimanere tra le sue opere più interessanti. Inizialmente il progetto doveva essere una raccolta di cortometraggi sui bagni pubblici di Tokyo, luoghi che si presentano come vere e proprie opere di design, che lo stesso Wenders ha definito come “dei piccoli santuari di pace e dignità”. L’autore, non volendo limitarsi solo a dei corti, ha optato per un lungometraggio e così ha preso forma “Perfect Days”, poggiando quasi unicamente su un solo attore, il divo giapponese Koji Yakusho, che ha offerto un’interpretazione puntuale e intensa al punto da vincere il Prix d’interprétation a Cannes76. La storia. Tokyo oggi, Hirayama è un uomo solitario sulla cinquantina, che conduce una vita semplice e regolare: si occupa della pulizia dei bagni pubblici e nel tempo libero si perde in letture senza sosta, in fotografie di spazi naturali, nella cura delle piante e nell’ascolto della musica. La sua quotidianità lietamente ripetitiva viene alterata da una serie di incontri, a partire dalla nipote adolescente…
“La routine di Hirayama – sottolinea Wenders – è […] la spina dorsale della nostra sceneggiatura. La bellezza di un ritmo così regolare, fatto di giornate ‘tutte uguali’, è che inizi a vedere tutte le piccole cose che non sono mai le stesse ma che cambiano ogni volta. Il fatto è che se impari davvero a vivere interamente nel qui e nell’ora, non esiste più la routine, esiste solo una catena infinita di eventi unici, di incontri unici e di momenti unici”. Wenders confeziona un’opera minuta e potente, intessuta di poesia. Si addentra in spazi urbani di Tokyo, scomponendone la grandezza e riducendola a misura d’uomo, alla vita gentile di Hirayama. L’uomo dal passato enigmatico, probabilmente benestante, ha scelto una vita nel segno della semplicità e dignità, per assaporarla in pienezza tra interessi e passioni artistiche. La sua vita, al di là del lavoro condotto con disciplina, è scandita dal ritmo di letture, cassette musicali o fotografie. Tutto è dolcemente ripetitivo, mai banale o stancante. Wenders ci schiude la bellezza del mondo di Hirayama, regalandoci vedute inedite di Tokyo, con una fotografia elegante e suggestiva e una colonna sonora cesellata alla perfezione tra brani di Lou Reed, Patti Smith, Rolling Stones e Van Morrison. Un film splendido, profondo, di struggente bellezza, che Koji Yakusho esalta alla perfezione. Consigliabile, poetico, per dibattiti.
“The Miracle Club” (Cinema, 04.01)
Che bella sorpresa “The Miracle Club”, la commedia con pennellate drammatiche diretta da Thaddeus O’ Sullivan, su soggetto di Jimmy Smallhorne, che vede protagoniste le attrici Premio Oscar Maggie Smith e Kathy Bates insieme a Laura Linney e Agnes O’Casey. Una storia ammantata di riflessioni religiose che in verità si snoda come un “on the road movie” dell’anima. La storia. Ballygar, Dublino, 1967. Lily, Eileen e Dolly sono tre amiche che vorrebbero andare a Lourdes in Francia, in un pellegrinaggio organizzato dalla parrocchia. Al gruppo si aggiunge anche la loro vecchia amica Chrissie, residente da tempo negli Stati Uniti. Arrivate al santuario, tutte si confrontano con il bisogno disperato di un segno di grazia e al contempo con irrisolti del passato che faticano persino a confidare…
“Mia madre – ha raccontato lo sceneggiatore Jimmy Smallhorne – si prendeva cura da sola di otto figli più mio padre, erano dieci pasti, tre volte al giorno. Tutte le donne che vivevano sulla mia via erano eroiche, carismatiche, personaggi affascinanti. Erano resilienti nonostante le difficoltà e avevano fede”. “The Miracle Club” è una bella e convincente proposta che mette a tema la fede, il Mistero, ma soprattutto il bisogno di perdono, di sapersi perdonare. Più che approfondire uno spazio di fede, nello specifico il santuario francese – al cinema raccontato nel 2009 da “Lourdes” firmato da Jessica Hausner e nel 2020 dal documentario omonimo di Thierry Demaizière e Alban Teurlai –, la commedia “The Miracle Club” si sofferma sulla dimensione umana, sulle sofferenze recate da traumi o silenzi del passato. Ognuna delle protagoniste custodisce nell’animo un segreto, un tormento, che non dà tregua e ammala la vita di tutti i giorni. Ognuna di loro, in maniera diversa, si accosta al santuario con una speranza. Alla fine, però, la vera salvezza non giunge dalla manifestazione della grazia, dal miracolo, bensì dalla capacità di ascoltarsi, di confidarsi e, sì, di perdonarsi a vicenda. È il perdono, infatti, più che il miracolo effettivo, a salvare sollevando da oppressioni insopportabili. Il viaggio di queste quattro amiche nel Sud della Francia si tramuta pertanto in un percorso riparatore, di riconciliazione, che libera dalle sofferenze e apre alla salvezza nel quotidiano. “The Miracle Club” è un’ottima commedia, densa di temi complessi (la morte, la disabilità, la malattia, il trauma dell’aborto, l’abbandono) gestiti però con grazia e gentilezza, che attrici maiuscole governano in maniera puntuale e rispettosa. Consigliabile, problematico-poetico, per dibattiti.
“Saltburn” (Prime Video)
Dal 22 dicembre su Prime Video è disponibile “Saltburn” della britannica Emerald Fennell, nota anzitutto come attrice nel ruolo di Camilla Parker-Bowles in “The Crown” (2019-20) e poi come regista per il sorprendente “Promising Young Woman” (2020), candidato a cinque premi Oscar nel 2021 e una statuetta vinta per la sceneggiatura originale. Con “Saltburn” la Fennell si misura con la prova più difficile, l’opera seconda, che conferma tutte le sue potenzialità per stile e densità di racconto, ovviamente con scelte di regia non poco provocatorie. La storia. Università di Oxford, anni Duemila. Oliver è una matricola che cerca di inserirsi nel competitivo ambiente accademico, dove brilla la comunità Upper Class di cui è l’emblema l’affascinante Felix. Oliver, che proviene da un ambiente semplice e modesto, fa di tutto per farsi notare. Con vari stratagemmi riesce a entrare nelle grazie del mutevole Felix, che lo invita a trascorrere le vacanze nella sua tenuta di famiglia, Saltburn. Vacanze che finiranno in una vertigine di spregiudicatezze e violenze…
Emerald Fennell ancora una volta firma un racconto scomodo e spinoso, un affresco deformato della società inglese, della sua gioventù, tra vanità, ambizioni, desiderio di possesso e rivalsa. Uno scenario umano lascivo e disincantato, di cui vorrebbe fortemente, ossessivamente, far parte il protagonista Oliver, un uomo comune, che rifiuta la sua normalità e brama di impossessarsi del mondo agiato abitato di Felix e dalla sua famiglia. “Saltburn” è un racconto feroce, spietato, i cui toni drammatico-thriller vengono “mascherati” da un’atmosfera estetizzante e seducente, spinta sino ai confini dell’eccentrico e del grottesco. La Fennell firma una satira sociale-esistenziale crudele e inclemente, dove non c’è traccia di salvezza o redenzione, richiamando in un certo senso “Teorema” (1968) di Pier Paolo Pasolini. L’importante è apparire e vivere al massimo, senza esitazioni. Un mondo capovolto, tristemente edonista, che non ammette spiragli di luce. Al di là dell’impianto narrativo problematico e controverso, non si può non cogliere l’abilità di penna e di regia della Fennell, che non delude le aspettative; sono inoltre da sottolineare le interpretazioni potenti di Barry Keoghan e Jacob Elordi, insieme a quelle di Rosamund Pike, Richard E. Grant e Carey Mulligan. Complesso, problematico.