“Mani nude” con Alessandro Gassmann e “Anora”, Palma d’oro di Cannes77

giovedì 24 Ottobre 2024
Un articolo di: Sergio Perugini

Nei tornanti bui della vita. È lì che guardano i due film in cartellone alla 19a Festa del Cinema di Roma, nell’ottavo giorno di proiezioni. Anzitutto l’italiano “Mani nude”, opera seconda di Mauro Mancini dopo l’intenso esordio “Non odiare” (2020). Protagonisti Alessandro Gassmann e Francesco Gheghi, in un duetto che si muove sul confine tra vendetta e solidarietà, odio e perdono. È la storia di un diciottenne che finisce in un giro claustrofobico di incontri clandestini di lotta, dove la sconfitta equivale a una condanna a morte. Un viaggio nella notte dell’odio e dell’efferatezza, dove si fatica a trovare un appiglio di luce. Tematicamente denso e sfidante, governato da una regia ricercata. Ancora, alla Festa di Roma arriva la Palma d’oro del 77° Festival di Cannes, lo statunitense “Anora” di Sean Baker, che rilegge la “favola” di “Pretty Woman” in chiave asciutta e grottesca. È l’avventura della spogliarellista Ani, che trascorre una settimana con il figlio di un magnate russo; non una storia romantica, ma un’avventura tragica dai riverberi esilaranti. Film furbo e ruffiano, esplicito nella modalità di racconto, diretto in maniera convincente. Protagonista Mikey Madison. Il punto dalla Festa.

“Mani nude”
Il suo esordio, “Non odiare”, si è fatto notare alla 77ª Mostra del Cinema della Biennale di Venezia (2020). Parliamo del regista, sceneggiatore e direttore della fotografia Mauro Mancini, che alla Festa di Roma presenta la sua seconda regia: “Mani nude”, adattamento dell’omonimo romanzo di Paola Barbato. Una discesa nei tornanti dell’odio, della sopravvivenza selvaggia e ferina, dove speranza, solidarietà e perdono sembrano un pallido miraggio. Protagonisti gli ottimi Alessandro Gassmann e Francesco Gheghi, affiancati da Fotinì Peluso, Giordana Marengo e Renato Carpentieri. Nelle sale con Eagle Pictures.
La storia. Davide è un diciottenne che viene rapito e segregato in una nave abbandonata. Lì viene forzato ad allenamenti estenuanti dallo spietato Minuto, che ha intenzione di metterlo nel giro dei combattimenti illegali. Per Davide non c’è scampo: combattere e salvarsi oppure morire. Il giovane riesce a rimanere in piedi, riportando una vittoria dopo l’altra, e Minuto sembra dimostrargli credito, quasi una tenera apertura. Ma una scomoda rivelazione li attende…


“Qual è la nostra vera natura? – si interroga il regista – Siamo nati per fare del male? Siamo in grado di redimerci? È su queste domande e molte altre che ci siamo concentrati per sviluppare la narrazione di ‘Mani nude’ (…) ci siamo ispirati al noir d’autore (…), parlando di uomini che hanno paura, eternamente sbagliati. Odio, amore, senso di colpa e volontà di vendetta popolano il racconto”. Mauro Mancini provoca lo sguardo, lo spettatore, con un film fosco e disperante. Attraverso le vite “disgraziate” del giovane Davide e del cinquantenne Minuto introduce una serie di temi densi e brucianti. Un film che si muove come una tragedia shakespeariana condito con una violenza senza filtri. Facendo esperienza dei combattimenti di Davide, si scorge il limite dello smarrimento umano, la frontiera di un mondo brutale e selvaggio dove si uccide per non essere uccisi. Lì, in quella zona grigia, due solitudini provano a salvarsi: Davide e Minuto, all’inizio distanti e rivali, vittima e aguzzino, dopo solidarizzano per guadagnare la libertà. Ma il male è sempre in agguato, pronto a tessere la sua tela. Mancini costruisce un racconto composito, dalle svolte impreviste e spiazzanti, anche se il copione non sempre tiene il passo in maniera fluida e convincente. L’atmosfera è livida, soffocante, in linea con la prigione fisica e interiore dei due protagonisti. Vite messe in scacco dalle proprie colpe oppure omissioni, che per un momento sembrano assaporare la possibilità del riscatto, ma che ben presto vengono richiamate nella palude della vendetta da dove provengono. Una storia di vinti, di uomini soli, senza tracce di salvezza. Un’opera dura e disperante, che si fa apprezzare per lo stile narrativo. Complesso, problematico, per dibattiti.

“Anora”
Si è imposto al 77° Festival di Cannes, convincendo la giuria presieduta da Greta Gerwig, che gli ha conferito la Palma d’oro. È “Anora” scritto e diretto dal regista statunitense Sean Baker, che passa in cartellone alla Festa di Roma prima dell’uscita in sala con Universal.
Il film offre uno sguardo sulla società odierna giocata negli eccessi, vite al limite tra locali notturni, voyeurismo sessuale e droga a fiumi, dove il denaro compra tutto e tutti. Uno sguardo disincantato che evita note tragiche a favore di sconfinamenti nella commedia irriverente e nel grottesco. Protagonista Mikey Madison, con Mark Eydelshteyn, Yura Borisov, Karren Karagulian e Vache Tovmasyan.
La storia. Brooklyn, oggi. Anora detta Ani è una spogliarellista nel locale HeadQuarter. Una notte, tra i suoi clienti, si presenta il giovane rampollo russo Vanja, che le chiede di rivederla anche fuori dal locale. All’inizio è uno scambio di sesso a pagamento, ma subito dopo i due si affezionano e si sposano a Las Vegas. Una favola che si incrina rapidamente quando gli scagnozzi del padre cercano di forzarli all’annullamento del matrimonio. Ventiquattro ore di follia e inseguimenti che cambieranno la vita di Anora…


“Avevo chiaro – spiega il regista – quale forma visiva e quasi tattile Anora avrebbe dovuto restituirci. Ho guardato agli anni Settanta: al New Hollywood, al cinema italiano, allo spagnolo e al giapponese in stile e sensibilità. Per una storia del genere volevo un’estetica polita e misurata, deliberata ed elegante”. Sean Baker si è fatto conoscere con film di matrice indipendente, con tematiche sfidanti raccontate in maniera ironica e al contempo esplicita: tra i suoi titoli “Un sogno chiamato Florida” e “Red Rocket”. Con “Anora” Baker fa il salto verso il grande pubblico, forte della vittoria a Cannes. Riprende la formula narrativa collaudata de “La traviata” e di “Pretty Woman” (1990), in chiave rivista e corretta:
via il romanticismo e il pathos mélo, spazio a una girandola di sesso, droga ed equivoci, dove la ventitreenne spogliarellista prima sogna il riscatto sociale e poi si perde nell’amarezza di un mondo misero e spregiudicato governato dai quattrini. Un film dai dialoghi spesso esilaranti, che però guardato attentamente evidenzia un orizzonte umano misero e infelice, dove non c’è spazio per sentimenti e rispetto, figuriamoci per l’amore. Anora ci viene raccontata come una “eroina” contemporanea, che passa dal vendere il proprio corpo all’essere la vittima del cinismo di una facoltosa famiglia russa. Lei si batte per il suo sogno d’amore, o presunto tale, ma la spregiudicatezza del denaro la mettono al tappeto. “Anora” è un film governato da Baker in maniera interessante, su un copione che alleggerisce le atmosfere torbide con dialoghi e scene brillanti; soluzioni di certo acute, marcate però anche da una certa furbizia. Un film che ha carattere, ma non poco problematico per temi e linguaggio esplicito, visivo e verbale. Film complesso, problematico.

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