“Padre Pio”, intervista allo sceneggiatore Maurizio Braucci
giovedì 25 Luglio 2024
Un articolo di:
Sergio Perugini
Uno sguardo sfidante e poetico, quello di Abel Ferrara. Dall’inizio della sua carriera ci ha abituati a suggestioni cinematografiche potenti, capaci di spingersi anche sui territori della fede e del mistero. Tra i suoi titoli più evocativi “Il cattivo tenente” (“Bad Lieutenant”, 1992), “Mary” (2005) e “Pasolini” (2014). Dopo essere stato presentato nella sezione Giornate degli Autori alla 79a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, è in sala dal 18 luglio il suo omaggio al santo di Pietrelcina: “Padre Pio”, film che approfondisce l’arrivo del frate a San Giovanni Rotondo nel 1920, periodo in cui negli stessi territori del Sud si consuma una ribellione di ultimi in difesa della dignità lavorativa. Interpretato con intensità dall’attore statunitense Shia LaBeouf, il film è scritto a quattro mani dal regista insieme a Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore di lungo corso, dalla filmografia che denota una chiara statura etica, di impegno sociale e civile, premiato a Berlino per “La paranza dei bambini” (2019), ai David di Donatello per “Gomorra” (2008), “Anime nere” (2015) e “Martin Eden” (2020). Nel 2024 ha ricevuto il Nastro d’argento per “Palazzina Laf”, folgorante esordio alla regia di Michele Riondino. Il Sir lo ha incontrato per raccontare il film “Padre Pio”.
Come nasce il progetto su “Padre Pio”? Quali ricerche ha compiuto?
Questo film ha richiesto una lunga fase di documentazione. Un progetto di scrittura che risale a oltre dieci anni fa. Prima di tutto siamo partiti dai luoghi, come Pietrelcina e San Giovanni Rotondo, dagli ambienti che lui frequentava, consultando anche la comunità dei frati e gli storici. In particolare, abbiamo lavorato sui libri di Sergio Luzzatto (“Padre Pio”) e di Antonio Tedesco, sui suoi due volumi dedicati al massacro del 1920. Tutto ciò è confluito prima in un documentario, “Searching for Padre Pio”, poi nel copione cinematografico. La sceneggiatura di fatto era pronta nel 2014, ma abbiamo avuto numerose traversie realizzative. È servito molto tempo, un po’ perché il racconto di Padre Pio non è proprio convenzionale; poi, c’era anche la questione sulla “querelle” tra storici – partita da un articolo de “L’Avanti” del 1968 – su una “responsabilità” che si attribuiva a Padre Pio, quasi di complicità sui massacri dei socialisti. In verità era un’accusa infondata, aspetto già indagato in precedenza da storici cattolici, che avevano raccolto una documentazione puntuale smentendo tali voci. Quindi, non soltanto abbiamo composto un quadro storico, sociologico, antropologico e religioso: ci siamo trovati anche a smentire una posizione di “complicità” addossata ingiustamente a Padre Pio.
Perché il parallelismo tra tormenti interiori del frate e sofferenze sociali?
Questo è stato il nostro punto di vista principale dal momento in cui si è formata l’idea. Padre Pio aveva partecipato compassionevolmente, non aderendo a una posizione politica, accanto a tali contestazioni. Quindi abbiamo raccontato l’assassinio dei poveri contadini eletti al municipio da parte di soldati al soldo dei latifondisti, quelle milizie che poi aderiranno al fascismo. Abbiamo proposto questa storia umana, sottolineando i giusti e le vittime: i socialisti. Noi raccontiamo lo struggimento interiore di un uomo che sentiva gli orrori del tempo, le violenze perpetrate.
Ha lavorato in precedenza con Abel Ferrara al film “Pasolini”. Lo sguardo sulla figura di Padre Pio è forse debitore della filmografia del regista? O magari siete stati influenzati da altre suggestioni?
Abel Ferrara è un maestro del cinema e lo ha mostrato con tanti film che ne hanno fatto la storia. Si dice, poi, che un regista faccia quasi sempre lo stesso film dal punto di vista poetico. L’interesse di Abel Ferrara per gli aspetti del sacro, in una chiave “eretica” o non accondiscendente, ha sempre caratterizzato la sua filmografia: “Cattivo tenente”, “The Addiction”, “Fratelli”, ecc. C’è sempre questa enfasi su un aspetto spirituale. In questo “Padre Pio” non è diverso: è un film in cui lui approfondisce lo spirito delle sue opere. Da qualche anno Abel Ferrara vive in Italia e lavora sulle proprie radici culturali, in quanto italo-americano. Insieme abbiamo realizzato il film “Pasolini”, dove abbiamo scavato alla base della cultura nazionale: Pier Paolo Pasolini è un personaggio pieno di sacralità, che ci ha spinto anche a osservarne le contraddizioni, cercando una nostra posizione, visione. Per tali motivi anche il film “Padre Pio” continua la poetica di Abel Ferrara, che oltre a indagare il personaggio indaga il contesto storico. Cosa può la spiritualità di fronte al massacro? È una domanda che possiamo porre anche oggi, come persone spirituali, rispetto a quello che sta accadendo in Ucraina oppure in Palestina. Vogliamo un mondo giusto, ma il mondo non lo è. Come possiamo comprenderlo, provare a cambiarlo? Lì c’è la risposta di un uomo, Padre Pio, che è quasi un veggente, che vede che in effetti quel sangue non è altro che un sangue fraterno, che avrebbe portato poi ai massacri della Seconda guerra mondiale. L’essere feriti oggi significa essere consapevoli delle possibili ferite del domani.
Scorrendo i copioni che ha firmato emerge un’evidente linea di racconto su temi etici, diritti spezzati ed esistenze smarrite. Quanto è stato importante per lei questo taglio nell’accostarsi di Padre Pio?
Anzitutto c’è il confronto con una figura che appartiene alla cultura italiana, nel mondo. Molti lo amano, altri lo “odiano”. Questo fa porre domande, davanti a sentimenti così estremi tra devozione assoluta e rifiuto. “Padre Pio” è stato anche un film scomodo da realizzare. Il cinema deve servire a mettere il dito nelle contraddizioni perché lo spettatore possa esserne più consapevole e farsi un’idea più completa del mondo. I film non devono solo servire a farci sorridere o dimenticare, ma anche a farci riflettere. Contemplando l’idea di complessità si può vivere la vita con maggiore saggezza, con una compassione vera, che non è come diceva Ivan Illich “amare il mondo”. Un concetto troppo astratto. Io devo amare le persone intorno a me, che contribuiscono poi a rendere il mondo migliore. Dobbiamo imparare a vivere il mondo come adulti, perché fondamentalmente siamo un’umanità ancora molto infantile.
Un anno straordinario per un altro suo lavoro, “Palazzina Laf” di Michele Riondino.
È un film che si scopre a poco a poco. Un’opera che cammina sulle proprie gambe e si fa strada nell’attenzione del pubblico. “Palazzina Laf”, raccontando un fatto storico, il primo caso di mobbing in Italia, ci indica come noi possiamo abituarci all’oppressione, allo sfruttamento e alla manipolazione, aggiustandoci sempre un po’ fino al punto di non poter più reagire. Ci dice come dobbiamo essere più consapevoli delle dinamiche di oppressione. Un film che mette in guardia dall’abituarsi al male, anziché guardarlo negli occhi e affrontarlo. Combatterlo.
È al lavoro su nuovi progetti?
Al momento mi trovo ad adattare un libro cui sono molto legato come napoletano e scrittore: “La fontana rotta”. A scriverlo l’antropologo italoamericano Thomas Belmonte, che venne a Napoli nel 1975 per raccontare la cultura della povertà, ma che ci entrò così profondamente al punto da perdere la distanza necessaria. Sarà il mio esordio alla regia. Sento la storia molto vicina. Ed è questo il segreto della scrittura: non si deve avere uno sguardo troppo lontano ma neppure troppo precipitato nel mondo, perché altrimenti si perde la capacità di raccontarlo in maniera efficace.