«Il lavoro ci dà dignità, e i responsabili dei popoli, i dirigenti hanno l’obbligo di fare di tutto perché ogni uomo e ogni donna possano lavorare e così avere la fronte alta, guardare in faccia gli altri, con dignità. Chi, per manovre economiche, per fare negoziati non del tutto chiari, chiude fabbriche, chiude imprese lavorative e toglie il lavoro agli uomini, compie un peccato gravissimo» (Francesco, Udienza generale, 15 marzo 2017). Il lavoro è un tema caro a papa Francesco, riflessione ricorrente nelle sue omelie e nei suoi discorsi. Il Papa richiama la società tutta a garantire il lavoro per ciascun uomo e donna, un lavoro lontano dalle logiche dello sfruttamento, occasione di dignità e riscatto.
Uno dei registi europei tra i più impegnati e sensibili a queste tematiche, in particolare ai diritti delle classi subalterne, è l’inglese Ken Loach. Il suo ultimo film “Io, Daniel Blake” (“I, Daniel Blake”, 2016) è una forte e accorata denuncia della condizione degli ultimi nella società contemporanea, che si affannano per tenersi stretto un posto di lavoro, ai limiti delle proprie possibilità fisiche. “Io, Daniel Blake” è stato scelto come decima proposta per il ciclo di film sulla “buona notizia” dall’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali e dalla Commissione Nazionale Valutazione Film CEI.
Il sacrificio di Daniel per il prossimo
A 80 anni compiuti il regista inglese Ken Loach con “Io, Daniel Blake” (“I, Daniel Blake”, 2016) ha ottenuto la sua seconda Palma d’oro al Festival di Cannes – la prima vittoria nel 2006 con “Il vento che accarezza l’erba” (“The Wind That Shakes the Barley”) –, vincendo inoltre il David di Donatello come Miglior film europeo. Autore da sempre in prima linea nella difesa dei diritti dei lavoratori e degli ultimi della società inglese – tra i suoi film si ricordano “Riff Raff” (1991), “Piovono pietre” (“Raining Stones”, 1993), “Bread and Roses” (2000), “Paul, Mick e gli altri” (“The Navigators”, 2001) –, Loach con “Io, Daniel Blake” fotografa la condizione di chi per problemi di salute o per aver perso il proprio impiego è costretto a rivolgersi allo Stato per ottenere un sussidio. È l’inizio di un girone infernale dove le difficoltà hanno la meglio sul senso di giustizia e solidarietà. La storia: Daniel Blake (Dave Johns) è un falegname sessantenne che per problemi cardiaci deve sospendere la propria attività e richiedere un sostentamento pubblico. Appena si trova davanti al mondo della burocrazia fa esperienza immediata del livello di miseria umana e senso di abbandono, di impotenza. Daniel inoltre prende a cuore la condizione di Katie (Hayley Squires), mamma sola di due bambini in cerca anche lei di un sussidio statale. Un incontro segnato dalla tenerezza.
Colpisce sempre duro Ken Loach, scuote lo spettatore di fronte ai problemi concreti e urgenti dell’oggi, ovvero il diritto a un lavoro e la possibilità di condurre una esistenza decorosa. L’opera di Loach, la sua intera filmografia, è un grido furente ma anche poetico, segnato da rabbia e dolcezza, uno sguardo denso di misericordia verso coloro che perdono i propri diritti e si vedono tagliati fuori dalla società.
Regia lucida e diretta, senza orpelli o sequenze gratuite; la narrazione di “Io, Daniel Blake” va diritta al cuore del problema, non facendo sconti, soprattutto alle istituzioni alle quali il regista chiede un impegno più presente, un volto più umano. Nel suo film emerge però anche una forte carica emotiva: non si può rimanere impassibili, indifferenti, davanti alle peripezie di Daniel e Katie, simbolo di un’umanità stretta nella trappola di una burocrazia cinica senza trovare appiglio o aiuto. Daniel e Katie sono anche simbolo di solidarietà e fratellanza, la speranza di un mutuo soccorso sempre possibile. È infatti un’umanità che ama, che spera ancora in un riscatto possibile, un riscatto che avviene proprio grazie all’incontro con l’altro.
Valutazione Pastorale Commissione Nazionale Valutazione Film
Ottanta anni compiuti a giugno, una trentina di film girati nel corso di una carriera cominciata alla BBC all’inizio dei Sessanta, e una lucidità di sguardo e di riflessione che gli ha permesso con questo film di aggiudicarsi la seconda Palma d’oro a Cannes 2016 (dopo “Il vento che accarezza l’erba”, 2006). Ken Loach è così: proprio quando siamo pronti a sottolinearne la ripetitività di temi e argomenti, il girare intorno a nodi sociali ben conosciuti, la staticità di nodi drammatici, ecco che il cineasta inglese ci sorprende con una scansione narrativa nuova e inedita. Non tanto per lo sviluppo che propone ma piuttosto per l’angolo esistenziale che affronta, quel viluppo intricato che sembra mettere i protagonisti in una situazione senza via d’uscita. Il titolo avrebbe potuto essere “Io, Daniel Blake cittadino” con l’aggiunta “del mondo”. Perché quel nome significa l’unità nel plurale, il singolo nella collettività, e anche una voce isolata in mezzo a tante voci difformi. Nel suo vagare sempre più disperato per le strade di Londra, Blake diventa simile ad un viandante impossibilitato a scegliere, perso in un deserto di incomprensione e di ineluttabile abbandono. L’occhio del regista tuttavia resta vigile sulla parabola del protagonista, lo pedina e lo segue fino a quando una reazione è ancora possibile. Al momento in cui qualcosa cede, l’uomo Daniel Blake è pronto ad affidarci la sua pesante eredità: quella dell’umanità violentata e offesa, della sofferenza lasciata senza difesa, della ferita rimasta senza cura. Ora restiamo inerti di fronte a lui e ci chiediamo che fare. L’invito deve coinvolgere tutti gli uomini di buona volontà, pronti ad aiutarsi e a difendere e lottare per un futuro più vero e giusto. Per questi accenti da parabola, per questa silenzioso appello finale, per questo sommesso grido di dolore trattenuto, il film di Ken Loach è da valutare come raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti.
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