SU RE: POETICO SGUARDO SULLA CROCE AMBIENTATO IN SARDEGNA
Su Re (2013) di Giovanni Columbu per la sesta settimana di Quaresima: come Pasolini, il regista si libera di abbellimenti e mette in scena una Passione “povera” in dialetto sardo
«Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico? […] Dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà […] Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, “svuotato”, per rendersi in tutto simile a noi» (Papa Francesco, Messaggio per la Quaresima 2014). Sesta proposta per la Quaresima 2014 dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali e della Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI è Su Re (2013) di Giovanni Columbu.
Il ritorno a uno sguardo “povero”
Se negli anni Duemila a Hollywood torna in auge il genere religioso (La Passione di Cristo, Noah, Exodus), affrontato sempre in chiave kolossal spettacolare, in Italia – oltre alla copiosa produzione di fiction religiose menzionate in precedenza – diversi autori cinematografici sentono la necessità di ritornare a raccontare la figura di Gesù con uno sguardo “altro”. Viene scelta una modalità di racconto povero, spoglio di abbellimenti e di scenografie, con un linguaggio in sottrazione, che mostra evidenti richiami alla tradizione cinematografica europea (Robert Bresson) e, nello specifico, italiana, a cominciare dal Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini. Si fa riferimento, dunque, al recente Su Re (2013) di Giovanni Columbu oppure a Io sono con te (2010) di Guido Chiesa, opera quest’ultima che offre un inedito ritratto della figura di Maria, del suo essere madre.
La proposta di Giovanni Columbu
Ispirato ai Vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, Su Re di Giovanni Columbu è una rappresentazione della Passione di Cristo calata in Sardegna, negli spazi brulli dell’entroterra sardo, tutto girato in dialetto. Una povertà voluta, ricercata, nei luoghi così come nei volti degli interpreti. «Un film francescano» – ha sottolineato il regista – «nel solco della nuova stagione annunciata da papa Francesco, sobrietà, spiritualità vera profonda, povertà, non ostentazione della ricchezza». Colpisce soprattutto la decisa umanizzazione della figura di Cristo (interpretato da Fiorenzo Mattu), ritratto di un’umanità comune, distante dai canoni classici cui il cinema ci ha abituato, in primis Franco Zeffirelli con il suo Gesù di Nazareth. Qui Gesù è scuro di carnagione, persino non esile, ha i capelli corti e i lineamenti non perfetti. Appare come un uomo come tanti. È il richiamo a Isaia: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere» (Is 53, 2-3).
Gesù, dunque, uomo come tanti che viene schernito, ferito e insultato dalla folla, sino alla morte di stenti sulla croce. Un calvario raccontato con straordinaria intensità, in maniera poetica, senza ricorrere a una facile (furba) esibizione della violenza. Columbu gioca, invece, in sottrazione, come Pasolini. Non si vede il Cristo che viene percosso e umiliato, ma si sente solamente il suo respiro affannato, il suo lamento sotto i colpi dei carnefici; la macchina da presa è rivolta invece ai volti di chi lo ha condannato a morte.
«[…] Columbu affida Cristo a Fiorenzo Mattu, che non è bello, proprio no, ricorda un Bacchino tumefatto, con occhi e labbra da pesce palla. Basso, scuro e peloso: dimenticate l’iconografia zeffirelliana, il Cristo bello, biondo e agiografico, le fattezze da santino e i lunghi capelli lisci da pubblicità del Pantene. No, qui il girardiano ritorno surrettizio del sacro passa dall’iconoclastia dell’immaginario eletto: cancellazione “violenta” di quel pregresso, cinematografico e non solo, che ha cancellato il sacro e dunque aperto al suo ritorno immanente. Tra le pietre, il vento e la natura brulla dell’isola, Columbu fa implodere le calcificazioni del devozionismo e ritrova il sapere della violenza: Cristo soffre e sanguina, ci mancherebbe, ma la violenza è un’altra. Dotta, informata e letteralmente appassionata, la potente, fascinosa rilettura di Su Re scarifica la parafrasi omogeneizzata delle Letture e ritrova il Cristo fatto uomo, una nicciana pratica di vita, riportando sullo schermo la kenosis, il salvifico abbassamento di Dio al livello dell’uomo. È qui che riecheggia la recente esperienza mariana di Io sono con te di Guido Chiesa: la temperatura umana è la medesima, la prospettiva “dal basso”, la carne viva, Cristo e la Madonna due come noi. Più di noi» (Federico Pontiggia, Su Re. Il Vangelo sardo di Giovanni Columbu: oltre i santini, Cristo rifatto Uomo, in Rivista del Cinematografo, n. 3, marzo 2013, p. 42)
La valutazione
La scheda della Commissione Nazionale Valutazione Film, redatta nel 2013, riporta la seguente valutazione pastorale: «Forse, quando si parla di attualità del Messaggio e della sua dimensione metastorica (al di là dei confini del tempo), dovremo da oggi cominciare e pensare a questo titolo. Se Pier Paolo Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo, 1964) ha riscritto le coordinate della Passione con un fascino poetico e profondo, inscindibile tuttavia da meditate suggestioni letterarie e artistiche (il suo cinema “in prosa”), e Franco Zeffirelli ha composto nel 1976 un diario commovente e consolatorio del Calvario, oggi Columbu si avvia lungo un percorso differente, rovescia i termini della messa in scena, rinuncia a scegliere tra modernità e tradizione, si fa punto di incontro del dipanarsi di un grande Mistero. L’ambiente è una Sardegna aspra e pietrosa, la lingua è un dialetto sardo quasi incomprensibile eppure supportato da vocalità nascoste, le parole sono ridotte al minimo, la musica si fa spesso opportuno silenzio. Parlano gli occhi, i volti, la pelle rugosa e sofferta, le lacrime di un dolore inafferrabile, i gesti disperati e insieme misurati, composti, trattenuti. Parla la capacità di dire che un innocente si sta sacrificando per le colpe di tutti, che la sua morte non sarà invano. Nelle immagini del regista, il racconto si fa scabra e scarnificata rappresentazione di un dramma universale, diventa resoconto di un’umanità che diventa divina nella sopportazione del dolore, nella certezza di un ritorno dopo la morte. La Resurrezione, appena accennata, è di grande intensità e offre la misura migliore di una regia che rifrange e riverbera la figura di Cristo nelle mille figurae Christi che si muovono tra le rocce e i boschi. L’approccio ai testi evangelici è del tutto rispettoso, la cornice fatta di elementi naturali veri e realistici (vento, luce, alberi) affianca una fotografia che costeggia esempi del seicento spagnolo e suggestioni caravaggesche. Parole e sguardo creano un humus profondamente spirituale, dicono che un cinema religioso oggi esiste, affidato a coraggio, lucidità, capacità di uscire dal convenzionale. Magari tra provocazioni sul piano espressivo e rischi su quello commerciale. Ma altrimenti che Vangelo sarebbe? Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti».
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