Su Disney+ “Pinocchio”, al cinema “Don’t Worry Darling” e “I figli degli altri”
venerdì 23 Settembre 2022
Un articolo di:
Sergio Perugini
“When You Wish Upon a Star”. Qualsiasi bambino o adulto ha canticchiato almeno una volta il celebre brano Premio Oscar – firmato da Leigh Harline e Ned Washington, cantato da Cliff Edwards – che fa parte del film d’animazione “Pinocchio” del 1940 della Walt Disney, brano che è diventato poi manifesto musicale della casa di Topolino. A poco più di ottant’anni la Disney ha deciso di rivisitare il film in chiave live-action affidandolo a una coppia hollywoodiana da Oscar, il regista Robert Zemeckis e Tom Hanks (“Forrest Gump”). Un dolcetto zuccheroso che fa sintesi tra la storica animazione e il racconto di Carlo Collodi. Ancora, al cinema alcuni titoli di richiamo da Venezia79: il thriller psicologico “Don’t Worry Darling” di Olivia Wilde, con la popstar Harry Styles e Florence Pugh, e il dramma intimista “I figli degli altri” di Rebecca Zlotowski con Virginie Efira. Punto Cnvf-Sir.
“Pinocchio” (su Disney+)
Nella storia della Walt Disney è il secondo film d’animazione, dopo il successo di “Biancaneve e i sette nani” (1937). Parliamo di “Pinocchio” (1940), cartoon che si è imposto nell’immaginario comune come la versione più dolce e mielosa del classico della letteratura per l’infanzia firmato da Carlo Collodi (1881), smorzando quei toni malinconici e cupi del romanzo, recuperati invece dal cinema di Luigi Comencini (1972, miniserie Rai) e di Matteo Garrone (2019). E proprio quel tracciato dell’animazione è il sentiero che il regista Robert Zemeckis– firma anche il copione insieme a Chris Weitz – segue nella sua rivisitazione in live-action. Protagonista è Tom Hanks nel ruolo di Geppetto, affiancato da Cynthia Erivo nei panni della Fata Turchina, da Luke Evans in quelli del Postiglione/Omino di burro e dall’italiano Giuseppe Battiston in quelli di Mangiafuoco.
“Walt Disney era davvero arguto – sottolinea Zemeckis – Per realizzare i suoi film d’animazione, andava sempre alla ricerca di storie che fossero impossibili da girare in live-action. Si prestavano davvero bene all’animazione, perché erano incentrate su animali parlanti e marionette viventi, fate e nani […]. ‘Pinocchio’ è uno dei film di animazione più belli che siano mai stati realizzati, forse addirittura IL più bello in assoluto. L’ho sempre amato moltissimo. Ma ora che esiste il cinema digitale, la marionetta può essere tridimensionale. Ho pensato che avremmo potuto realizzare una versione molto plausibile […]. E anche se avevo paura di profanare un luogo consacrato, ho pensato che questo progetto ne valesse la pena”.
L’esperienza visiva del nuovo “Pinocchio” è di certo molto gradevole e rassicurante, in perfetta assonanza con il classico animato del 1940. Un elemento dunque di pregio, che apre la via al largo consumo, e al contempo ne costituisce il suo “limite”. L’impegno di un grande regista come Zemeckis – tra i suoi successi “Ritorno al futuro” (1985), “Chi ha incastrato Roger Rabbit” (1988), “Forrest Gump” (1994) e “A Christmas Carol” (2009) – è maggiormente sbilanciato nella resa visiva più che narrativa. L’opera rivela infatti un’esecuzione controllata, fin troppo, che gioca sul già visto, trovando compiutezza soprattutto nella messa in scena e nella grafica, piuttosto che per la valorizzazione della complessità narrativa del racconto di Collodi.
Tom Hanks, alla quarta collaborazione con Zemeckis (“Forrest Gump”, “Cast Away” e “Polar Express”), si muove con consueta maestria e disinvoltura, mettendo in campo una performance misurata. A ben vedere, il suo Geppetto potrebbe sembrare un po’ caricaturale, soprattutto se lo si rapporta a quello di Nino Manfredi, Carlo Giuffré o Roberto Benigni, ma bisogna raccordarlo sempre al modello scelto per l’animazione: un padre tenero e paffuto.
In ultimo, si segnalano le musiche di Alan Silvestri (“Ritorno al futuro”, “The Bodyguard”, “Forrest Gump”) che con Glen Ballard ha composto anche nuovi brani originali. Nell’insieme il live-action “Pinocchio” si propone come un dolcetto zuccheroso pronto a mettere d’accordo piccoli e grandi per una proiezione domestica; di certo suggestivo ma senza troppi sussulti. Consigliabile, semplice, adatto per dibattiti.
“Don’t Worry Darling” (al cinema)
È stato uno dei film più attesi e chiacchierati di Venezia79. È “Don’t Worry Darling”, esordio alla regia dell’attrice Olivia Wilde, racconto che omaggia nell’ambientazione l’America degli anni ’60, virando poi per la linea narrativa verso il thriller a sfondo distopico con un chiaro messaggio femminista. Nel cast, oltre alla stessa Wilde, Florence Pugh, Harry Styles, Chris Pine e Gemma Chan. La storia. Usa anni ’60, Alice (F. Pugh) e Jack (H. Styles) sono una coppia sposata che ha scelto di viere nella cittadina di Victory, fiorita come modello abitativo a ridosso di un centro di ricerca dove sono impiegati tutti gli uomini della zona. Alle donne spetta solo la cura della casa e dei figli. Quando una vicina della coppia mostra segni di malessere, denunciando manipolazioni da parte fondatore di Victory, Frank (C. Pine), Alice cerca di andare a fondo, minando la serenità familiare e la propria esistenza…
Scritto da Katie Silberman, “Don’t Worry Darling” si snoda come un “The Truman Show” (1998) rielaborato in chiave femminista, dove gli uomini risultano incapaci di cogliere talento e indipendenza delle donne, che vorrebbero rinchiudere di nuovo nello stereotipo della perfetta casalinga americana. Il pregio di “Don’t Worry Darling” risiede, come indicato, nella messa in scena, che ricostruisce lo sfondo sociale e culturale degli Stati Uniti anni ’60. La regista combina atmosfere stilose, ammantate da una carica glem, per poi virare in un orizzonte psicologico claustrofobico e delirante.
Il personaggio di Alice, reso con intensità e vigore da Florence Pugh (“Lady Macbeth”, “Piccole donne”, “Black Widow”), rappresenta l’emblema della donna che combatte per affermare la propria libertà di pensiero, parola e azione; una donna che il marito Jack, con l’inganno, cerca di ricondurre a una posizione subordinata, sottomessa, un modo bieco per “tutelare” il suo machismo in via di deterioramento. Senza addentrarci troppo nelle pieghe della storia, possiamo affermare che “Don’t Worry Darling” risulta un thriller esistenziale patinato, dallo sguardo femminista; un’opera curata e interessante, dalla costruzione però un po’ (troppo) farraginosa. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
“I figli degli altri” (al cinema)
In Concorso a Venezia79, “I figli degli altri” (“Les enfants des autres”) scritto e diretto dalla francese Rebecca Zlotowski, parigina classe 1980, è un viaggio nelle pieghe dell’animo di una donna quarantenne e del suo desiderio di maternità. Un racconto drammatico-sentimentale che esplora con finezza l’orizzonte femminile, servendosi di uno sguardo realista, puntellato da diffusa eleganza grazie all’interpretazione di Virginie Efira. La storia. Francia oggi, la quarantenne Rachel (V. Efira), professoressa in un liceo, conosce a un corso di chitarra il manager Ali (Roschdy Zem), cinquantenne da poco separato da Alice (Chiara Mastroianni) e padre della piccola Leila. Tra i due nasce una relazione. Rachel entra subito in sintonia con Leila, esplorando così il proprio desiderio di maternità…
La Zlotowski racconta la condizione di chi sperimenta una relazione con una persona separata e finisce per affezionarsi ai suoi figli. Un legame segnato sì da tenerezza ma anche da precarietà. La regista scandaglia, nello specifico, le insicurezze di una donna che vede dissolversi le possibilità di diventare madre, in una società sempre più difficile e dai legami fragili. La protagonista Rachel si tormenta per quel figlio che non riesce ad avere, ma al contempo ritrova fiducia e senso nella vita grazie all’insegnamento, nell’aiutare gli studenti. I figli degli altri. La Efira sagoma bene il personaggio, confermandosi attrice capace e raffinata, nome sempre più di primo piano nel cinema d’Oltralpe. Complesso, problematico, per dibattiti.