“Il colore nascosto delle cose” di Silvio Soldini conclude il ciclo di film sul tema della disabilità promosso da Cnvf e Servizio per la pastorale persone con disabilità CEI
Oltre la disabilità, uno sguardo ravvicinato sull’affettività di coppia; e ancora un riuscito ritratto di donna libera e risolta, sia a livello professionale che relazionale-esistenziale, al di là della condizione di non vedente. Questo affronta Silvio Soldini nel film “Il colore nascosto delle cose” (2017) con protagonisti Valeria Golino e Adriano Giannini, presentato fuori Concorso alla 74a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. Il titolo conclude il ciclo di 8 film proposti dalla Commissione nazionale valutazione film e dal Servizio Nazionale per la pastorale delle persone con disabilità della CEI.
La forza di Emma
Emma (Valeria Golino) è una quarantenne non vedente, che ha perso la vista durante l’adolescenza. La donna conduce comunque una vita piena e risolta, con gratificazioni professionali, come osteopata, e legami affettivi solidi. Un giorno incontra nel suo studio Teo (Adriano Giannini), un pubblicitario quarantenne dalla vita incerta e sregolata, con una relazione appesa, con la compagna Greta (Anna Ferzetti), posizionata sulla scala dei grigi. Teo si sottopone a una serie di sedute mediche con Emma, e tali incontri diventano occasioni per conoscersi meglio. È sorpreso dalla sicurezza della donna, così serena e libera, nonostante la condizione di persona con disabilità. Tra loro nasce un tenero e forte legame, destinato a complicare la vita di entrambi. O forse a migliorarla…
Emma e Teo oltre la disabilità
Non è il primo film che Silvio Soldini dedica alla condizione dei non vedenti. Nel 2013 ha infatti diretto il documentario “Per altri occhi. Avventure quotidiane di un manipolo di ciechi”, seguito l’anno dopo da “Un albero indiano”, viaggio in India insieme all’amico scultore non vedente Felice Tagliaferri. A distanza di qualche anno Soldini torna a raccontare la condizione della cecità con il film di finzione “Il colore nascosto delle cose” con Valeria Golino e Adriano Giannini. Alla 74a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia il regista ha sottolineato: “Qualche anno fa ho girato un documentario, ‘Per altri occhi’, con dei non vedenti. Era un mondo che non conoscevo e che mi ha stupito; ho scoperto persone piene di vita e d’ironia, che nonostante il loro handicap lavorano, fanno sport, viaggiano… Mi sono poi reso conto che al cinema non avevo mai visto niente di tutto ciò, che i ciechi erano spesso dipinti in modo drammatico, scontato, o con dei quasi super-poteri. Così ho deciso di filmare una storia d’amore con una non vedente come accade nella vita. Raccontare l’incontro tra due mondi lontanissimi, di un uomo che cambia, del coraggio di affrontare la vita, con leggerezza e profondità. E raccontare Emma e Teo come fossero due di noi, due persone amiche”.
Entrando nelle pieghe del film, con facilità si comprende come la condizione di persona con disabilità sia da riferirsi più a Teo che a Emma. Teo infatti vive una “disabilità” affettiva-esistenziale: è un quarantenne disperso, il cui rapporto con la vita è profondamente superficiale e senza slanci; affronta lavoro e relazioni con disimpegno, senza lasciarsi toccare veramente. L’incontro con Emma lo destabilizza del tutto. In prima battuta vede una specialista nel campo medico capace di svolgere la propria professione senza farsi condizionare dalla cecità; Emma è una nota osteopata, che abita la propria professione con realizzazione e passione. Conoscendola meglio, Teo si accorge inoltre che la donna è felice, vive un’esistenza risolta, rapportandosi con la quotidianità e il domani con piena fiducia. Teo ne rimane affascinato, stupito, cogliendo nel contempo le proprie fragilità e mancanze; lui che apparentemente si percepiva inattaccabile, inappuntabile. Teo si scopre nudo, “difettoso”: si accorge di non saper amare. Con Emma allora comincia una travagliata ma sempre più stimolante relazione, che sconquassa il suo mondo e lo rimette sul binario giusto della vita: quello della condivisione e della prossimità.
Affrontare la disabilità al cinema è da sempre un banco di prova rischioso. Va dato atto a Soldini di essersi gettato nella sfida, senza perdere di vista quel senso di misura, di dignità e di rispetto che hanno fino a oggi connotato i suoi film. Qui la regia di Soldini si muove con uno stile pacato, con toni quasi mai fuori posto, in linea con una compattezza narrativa che evita eccessi e scatti fuori onda. Accanto alla vicenda principale si aprono nel racconto alcune situazioni collaterali che allargano la visione d’insieme, e dicono che il film segue una linea di sicura tenuta etica e programmatica. Forse la messa in scena poteva essere più grintosa, meno accomodante. Ma il valore del film resta intatto. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.