Ogni volta che torna alla Mostra del Cinema della Biennale di Venezia lascia il segno, e i suoi film accendono discussioni ed emozioni a tinte forti. Parliamo del regista Darren Aronofsky – Leone d’oro nel 2008 per “The Wrestler” – che a Venezia79 presenta “The Whale”, film tratto dalla pièce teatrale di Samuel D. Hunter che segna il felice ritorno di Brendan Fraser in una prova struggente e sbalorditiva, non ipotecando solo la Coppa Volpi ma anche la via verso gli Oscar. Al Lido è anche il giorno del terzo regista italiano in Competizione, Emanuele Crialese, che presenta il suo film più personale, “L’immensità”, con una dolente Penélope Cruz, provando a bissare il successo di “Terraferma” del 2011, Leone d’argento. Punto Cnvf-Sir dalla Mostra.
“The Whale” – in Concorso
Quasi venticinque anni di carriera e otto film realizzati, di cui ben cinque in gara a Venezia. Parliamo dello statunitense Darren Aronofsky, autore di opere dalla marcata forza narrativa, oscillanti tra toni disturbanti e poetici, spirituali. Tra i suoi titoli più evocativi: “The Wrestler” (2008, Leone d’oro), “Il cigno nero” (“Black Swan, 2010) e “Noah” (2014). A questi si aggiunge ora il riuscito “The Whale”, che a Venezia79 punta a un premio di peso. All’origine c’è una pièce teatrale scritta da Samuel D. Hunter, che firma anche la sceneggiatura del film.
La storia. Stati Uniti, oggi. Charlie (Brendan Fraser) è un professore cinquantenne di Letteratura, chiuso da tempo in casa, in solitudine, perché fortemente obeso e dalla difficile deambulazione. Charlie ha un rapporto malsano con il cibo: lo usa in chiave punitiva, autodistruttiva. Quando la sua amica infermiera (Hong Chau) lo avverte di parametri vitali ormai fuori controllo, a rischio di degenerazione, l’uomo capisce di dover recuperare il rapporto disperso con la figlia adolescente (Sadie Sink, attrice rivelazione di “Stranger Things”), che non vede dalla prima infanzia…
Non è facile accostarsi a “The Whale”, come del resto a tutti i film di Aronofsky. L’autore usa il graffio, una certa “ferocia”, per declinare temi delicati e profondi come l’amore genitoriale, la famiglia, la ricerca di sé, le istanze spirituali, il confronto con la fede e l’Aldilà. In “The Whale” assistiamo a un tortuoso viaggio dal buio fosco alla luce più abbagliante, quella della speranza. In un ambiente delimitato, l’appartamento claustrofobico di Charlie, si svolge tutta la narrazione; lì troviamo Charlie dal corpo appesantito, deformato, come l’imponente creatura di Herman Melville – acuto e coinvolgente è il continuo rimando al romanzo “Moby Dick” –, spiaggiato sul divano incapace di concepire il domani. Quando sente il cuore andare all’impazzata, quando comprende di avere poco tempo, fa di tutto per ritrovare la figlia, per farsi perdonare. Il dialogo tra i due si era interrotto anni prima, quando l’uomo aveva lasciato la moglie, casa, dichiarandosi omosessuale. A ben vedere il film, seppure attraversato da correnti agitate e non poco problematiche, emana una luce avvolgente, rinfrancante: la luce del perdono e della misericordia. “The Whale” sembra così mettere in scena una sorta di moderna via Crucis, che vira inaspettatamente verso la Grazia, regalando non poca commozione.
Brendan Fraser offre un’interpretazione di grande intensità e umanità, ritrovando l’incontro il grande pubblico dopo anni silenziosi, appannati; per lui si profila un’annata straordinaria come fu per Mickey Rourke proprio con “The Wrestler”, firmato dallo stesso Aronofsky. “The Whale” è un film complesso, problematico, per dibattiti.
“L’immensità” – in Concorso
“L’Immensità è il film che inseguo da sempre: è sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro”. Così il regista romano Emanuele Crialese presenta il suo ultimo progetto, “L’immensità”, il più personale. Dopo i successi di “Respiro” (2002), “Nuovomondo” (2006) e “Terraferma” (2011), tutti incentrati su tematiche familiari e sociali, in particolare sui processi migratori, Crialese affronta ora la sua “migrazione” esistenziale: la transizione da donna a uomo. Lo fa componendo un racconto biografico con le dovute libertà narrative, un copione firmato insieme agli sceneggiatori Francesca Manieri e Vittorio Moroni.
La storia. Roma anni ’70, Adriana, Adri in casa (Luana Giuliani), è una dodicenne che si ribella al proprio corpo e sogna di essere un maschio, di chiamarsi Andrea. In famiglia il padre (Vincenzo Amato) manifesta insofferenze, aperta opposizione; accanto ad Adriana, però, oltre ai due fratelli più piccoli, c’è la madre Clara (Penélope Cruz), una donna luminosa, che avvolge di tenerezze i figli nonostante viva una bruciante solitudine e depressione in un matrimonio ormai rotto e spesso con scivolate violente. Adriana e Clara cercano di salvarsi a vicenda…
Con “L’immensità” Crialese mette in racconto se stesso e la propria famiglia, allargando il campo dello sguardo anche all’Italia degli anni ’70, quella che irrompe con brio dallo schermo del televisore: le performance Rai di Raffaella Carrà (più volte evocata nel film, persino nel taglio di capelli della Cruz), Adriano Celentano – il loro trascinante duetto in “Prisencolinensinainciusol” –, come pure quelle di Mina, Patty Pravo e Don Backy. In particolare, il film si concentra sul legame madre-figlia, su due solitudini che viaggiano come rette parallele esplorando la sofferenza, il rifiuto, la salvezza. “L’immensità” è senza dubbio un’opera densa, complessa, governata però con grande attenzione e pulizia visiva; la regia di Crialese si conferma infatti marcata da compostezza e da lampi di poesia. Il film, però, forse risente di un eccesso di controllo, al punto da arrestarne il crescente pathos. Penélope Cruz, sempre inappuntabile, irradia nell’opera una luce speciale, un’aura materna dolce ed comprensiva. “L’immensità” è un film complesso, problematico, per dibattiti.
La nota critica di Massimo Giraldi, presidente Cnvf – Giuria Signis
“Sorprende notare come i due film del quinto giorno di Venezia79, ‘The Whale’ e ‘L’immensità’, siano legati a doppio filo dalla medesima tematica: il dialogo genitore-figlio. Una tematica, a ben vedere, che attraversa molti titoli in cartellone. Anzitutto il film Aronofsky ci mette davanti in maniera palese al fallimento di un padre che, sentendo l’ombra della morte, cerca disperatamente di riannodare i fili del cuore con la figlia lontana. Un travaglio difficile, a tratti spietato, che però apre alla possibilità di riscatto. Dall’altro lato Crialese cala il rapporto madre-figlia in una situazione familiare spinosa e dolente, dove la figura paterna è tratteggiata in chiave machista e autoritaria. Il film mette a tema l’ascolto e la comprensione nel tessuto familiare, utilizzando una narrazione sobria, elegante, a tratti un po’ prevedibile e accompagnata”.